Avvolto nella nube
Avvolto nella nube
«... e noi vedemmo la Sua gloria» (Gv 1, 14c)
AVVOLTO NELLA NUBE
La nube nasconde sempre qualcosa: nasconde le stelle o l'azzurro del cielo o la vetta dei monti. Nello stesso tempo però la nube porta, come dono gratuito, difesa dai raggi cocenti, ristoro alla sete della terra, annuncio delle stagioni.
Nascosto, ma concreto, arriva a noi il nostro Dio. Egli si nasconde nella nube della nostra carne d'uomo, e nella nube delle nostre esperienze. Ed Egli si circonda della nube delle parole umane che fa giungere ai nostri orecchi. Nube che mai passa invano. Chi sa ed è attento può penetrare oltre ognuna di queste nubi per godere del Sole e cogliere il messaggio ed il ristoro che esse trasmettono, pur mentre nascondono la grandezza e la bellezza e la potenza dell'amore del nostro Dio.
Il cuore dell'uomo pulsa allo stesso modo da secoli e millenni. Gli uomini che hanno avuto a che fare con Dio hanno reagito come reagiscono quelli che hanno a che fare con Dio oggi.
Dentro le brevissime frasi usate dagli Evangelisti sono nascoste ore e giornate dense di vita e di conseguenze per tutta l'esistenza. La nostra esperienza riesce a togliere un pochino il velo a quelle parole che, in modo così succinto, presentano le persone che hanno vissuto da vicino il fatto centrale della storia: la nascita di Gesù.
La loro esperienza illumina la nostra, che non è meno importante. Essi hanno visto la nascita del Figlio di Dio nella storia, noi vediamo la nascita dello stesso Figlio nei cuori: questa è il frutto di quella, il suo compimento. Noi ancora più fortunati, noi ancora più responsabili! I nostri occhi vedono un natale continuo! Il Figlio di Dio ogni giorno riceve vita ed esistenza tramite il nostro divenire figli per Dio. Ogni giorno Egli riceve “carne” da noi, riceve energie e luogo per vivere ed operare.
Nulla è impossibile a Dio!
E noi diventiamo cornice, bella o macchiata, attraente o scostante, al Suo lavoro!
don Vigilio Covi
INDICE
- Maria
- Zaccaria
- Elisabetta
- Giovanni
- Maria
- Giuseppe
- Pastori
- I magi
- Erode
- Simeone
- Anna
- Sommi sacerdoti e scribi
- Maria e Giuseppe
- Gesù
MARIA
A queste parole Ella rimase turbata. (Lc 1, 29)
Quando cerco di vivere con Dio, in intimità con Lui, mi sembra che questa sia una mia azione, un modo con cui io gli do soddisfazione, se così ci si può esprimere nei Suoi riguardi. Il saperlo vicino, il sapere che la sua Presenza si fa piccola e segreta fino ad occupare il mio cuore mi dà pace. Una pace profonda, che riveste il mio spirito, acquieta l'anima e fa riposare ogni fibra del corpo. Una pace che fa vedere belle tutte le cose, e che accoglie ogni avvenimento.
Non è certamente la mia azione, la mia ricerca, che produce un così gran bene. È la Sua Presenza.
La mia ricerca d'intimità è solo un risvegliarmi, un accorgermi della sua Presenza. È Lui che agisce e trasforma. È Lui la pace dell'uomo, il suo riposo.
Ma ecco che in questa pace, in quest'acqua tranquilla Dio immerge il Suo dito: una parola, un compito, una missione! Egli si è accorto della mia disponibilità ed Egli ora la tocca. Il cuore giunto alla Sua pace Dio lo può possedere e... usare come strumento adatto del Suo amore.
Nel più profondo della pace dell'uomo ecco giunge una Parola di Dio. Forse che Lui non vuole la pace del cuore? Anzi, il cuore entrato nel Suo riposo è quello più adatto e pronto a ricevere la Parola. Il cuore abbandonato al Padre è quello preparato a ricevere il Verbo, il Figlio.
Ma rimane pur sempre cuore d'uomo. E quanto c'è ancora di umano si scuote quando il più leggero tocco di Dio lo raggiunge.
Il cuore di Maria, cuore giunto alla pace di Dio, immerso in Lui, si turba. Si muove ancora in Lei tutto! Una meraviglia grande, che Dio si accorga di lei, e le rivolga parola.
Quasi ella stessa non s'accorgeva più di se stessa.
Dio si accorge di Lei, una Sua Parola le giunge nuova.
Rimane turbata.
Proprio nel momento in cui pare di aver raggiunto ogni pienezza, lo scopo finale del vivere, d'esser arrivato alla pace, proprio allora la Parola di Dio si fa improvvisa e scuote.
L’uomo si sente... scoperto e chiamato. Chiamato a una nuova dimensione di pace con gli altri uomini.
Ricomincia il lavoro, la fatica dell'abbandono di se stesso, di un nuovo immergersi in Dio non più da solo, ma con tutti i propri legami e relazioni con gli altri uomini e con l'universo intero, con tutta la storia.
Ricomincia il cammino, da una pace già ricevuta ad una nuova pace più ampia, e più costosa.
Ricomincia una morte di sé più profonda, pubblica e duratura, perché possa ricevere vita e crescere e manifestarsi la Vita vera!
Maria è “turbata”. Un turbamento passeggero, fino a quando non s'accorgerà che la parola che la tocca e chiama è quella del suo Dio e Padre, che le aveva riempito il cuore della Sua Pace. Ecco, di Lui mi posso fidare, ecco, a Lui mi voglio affidare. “Si compia in me la Tua Parola”. Ritorna la pace serena che esplode in gioia pubblica, come è ora pubblica la Parola ricevuta che le trasforma la vita in vita di madre:
“Esulta il mio spirito in Dio, mio Salvatore”.
Il mio cuore è turbato. Quando Dio mi rivolge una parola la mia vita corre verso la morte. Quando mi raggiunge la Parola del Padre, ecco, Lui vuol fare in me posto per il Figlio Suo. Il mio io, così piccolo e corruttibile, si turba perché incontra una nuova morte, ma non appena cederà e lascerà tutto il posto alla Parola, allora una nuova Vita sorge riempiendo tutto, come nuovo regno per sempre: la Tua, Gesù.
ZACCARIA
Sarai muto e non potrai parlare fino al giorno... (Lc 1, 20)
Ci sono parole che passano e parole che non passano.
Ci sono parole che fanno parte del mondo che svanisce e parole che vengono da quel mondo che dura in eterno.
Le une e le altre vengono pronunciate dalle mie labbra uscendo dal mio cuore. La bocca, difatti, esprime ciò che sopravanza dal cuore. Il mio cuore è come un recipiente capace di contenere tesori intramontabili e capace di contenere cianfrusaglie destinate al fuoco.
Di lì vengono le parole. La bocca si muove per esprimere desideri, pensieri, giudizi, osservazioni, esclamazioni, volontà ... La mia bocca si muove per esprimere anche i desideri, i pensieri e le osservazioni e la volontà di Dio!
Ma molte volte quel che io dico, le mie parole, anche se sono parole di Dio, non toccano il cuore degli uomini, non producono frutto, sono sterili.
Mi accorgo allora di essere muto. Come se fossi muto. Come se le mie parole fossero solo aria che esce dai polmoni senza comunicare nulla, senza donare vita, senza accrescere in chi mi ascolta l'amore e la gioia e la forza e la consolazione e la grazia che sono proprie della vita.
Come mai le mie parole sono sterili? come mai ciò che esce dal cuore è privo di vita?
Eccomi muto.
È stato terribile per Zaccaria ritrovarsi improvvisamente incapace di dire alcunché. Ma per lui è stato una grazia, un dono di Dio. Dal suo cuore che dubitava di Dio, che non ha preso seriamente la Parola di Dio, dal suo cuore divenuto disobbediente in seguito al fermarsi della sua intelligenza che non capiva come Dio fosse superiore all'esperienza dell'uomo - che, passata una certa età, non può più aver figli -, dal suo cuore bloccato nell'abbandono a Dio non sarebbero più potute uscire parole di vita.
Zaccaria avrebbe potuto e saputo pronunciare solo parole inutili, senza vita, sterili; solo parole di convenienza, solo parole senza luce divina, senza forza spirituale, senza attrazione al Signore. Le sue parole non sarebbero più state portatrici di amore e di confidenza in Dio, non sarebbero più state segno o “ombra” della Parola, del Verbo ubbidiente in tutto al Padre, del Figlio santo ed eterno. Le parole di Zaccaria, semmai ne avesse potuto dire, sarebbero state parole capaci di mettere in evidenza la sua incredulità, la forza del suo ragionamento, l'impotenza dell'esperienza dell'uomo e avrebbero nascosto, invece, l'onnipotenza e la superiorità di Dio! sarebbero state parole di menzogna, di tenebre, di quella tenebra che vuole coprire la luce di Dio.
Eccolo muto. Dio stesso gli risparmia di diventare servo delle tenebre.
A me Dio non concede questa grazia. Mi concede però di accorgermi se le mie parole sono sterili, se non comunicano sapienza né gioia né consolazione. Egli mi concede di vedere se le mie prediche di sacerdote non danno forza ai cuori che ascoltano, se i miei colloqui con le persone non illuminano strade nuove per il loro cammino di fede, se il mio saluto a coloro che incontro per strada non comunica l'amore di Dio.
Ed allora... allora è segno che nel mio cuore qualche Parola di Dio è stata rifiutata. È segno di una mia disobbedienza e sfiducia alla promessa del Padre, è segno che ho sottoposto gli inviti di Dio al mio ragionamento.
Resterò muto, saranno sterili le mie parole, fino al giorno in cui le mie labbra non si apriranno che alla lode di Dio: fino al giorno in cui avrò fatto una nuova esperienza di abbandono e ubbidienza al Padre, fin quando la sua Parola non avrà trovato in me terreno per germogliare e crescere.
Allora la mia vita sarà nuovamente dono di Dio e non solo le parole delle mie labbra, ma pure la mia presenza silenziosa comunicherà qualcosa della Vita che è nel Figlio di Dio!
Zaccaria ricominciò a “parlare” quando volle dire: “Benedetto il Signore, Dio d'Israele, perché ha visitato e redento il suo popolo”, quando cioè Dio divenne nuovamente il suo Dio, più importante di se stesso!
ELISABETTA
concepì
e si tenne nascosta per cinque mesi:
e diceva:
«Ecco che cosa ha fatto per me il Signore
nei giorni in cui si è degnato di togliere la mia vergogna tra gli uomini». (Lc 1, 24)
Non sempre l'uomo si mette in mostra. Ci sono stati e ci saranno periodi della mia vita in cui ho cercato - e cercherò - di nascondermi.
Credo che il nascondimento faccia parte della vita autentica, come per la pianta è necessario star nascosta sotto terra fino a che il seme non sia morto, come per l'acqua è necessario scorrere sotto i sassi, nascosta, fino a che non trovi il suo spazio per donarsi, come per la vita dell'uomo è necessario rimanere nascosta nel grembo, fino alla sua ora.
Quando Dio mi tocca e si unisce a me - ed Egli non manca di chiamare a questi appuntamenti i figli destinati ad assomigliargli - cerco inevitabilmente il nascondimento, fatto di silenzio, di semplicità, di spazio vuoto e libero da ogni altra cosa e persona. Sembra allora che la presenza degli altri mi rubi qualcosa, mi tolga un certo che di prezioso e di vitale. Mi toglie quasi dalla presenza di Dio, che è l'unica che ho trovato piena, che vorrei gustare e di cui vorrei lasciarmi riempire.
Elisabetta si tenne nascosta cinque mesi. Elisabetta si è sentita privilegiata da Dio. Ha compreso che qualcosa di ancor più nascosto è nato in lei, di intimo e segreto. Ed allora eccola partecipare di questo nascondersi, e si ritira. Vive in un deserto nuovo, cercato, creato attorno a sé. Aveva fatto l'esperienza del deserto, sentendosi inutile alla vita perché il suo grembo era sterile, e tutti quelli che vivevano e si muovevano attorno a lei erano un richiamo a ciò che le mancava. Vedeva in tutti gli uomini dei figli, lei che figli non aveva. Ed era isolata. Costretta a rimanere esclusa dalla vita. Deserto arido, pungente, mortificante.
Ora lo continua, ma non è più così. È un deserto nuovo, che nasconde e custodisce la vita, un deserto di gioia e di consolazione, un deserto che è preparazione a tornare tra gli uomini.
“Si tenne nascosta per cinque mesi”. Un deserto necessario: in esso ella è ancora rivolta con i pensieri e col cuore a se stessa, e in esso vede il Signore chinato su di lei. È un periodo di passaggio. Aveva visto se stessa rifiutata dal Signore, per tutti gli anni della sua vita, ed ora il Signore la accoglie.
Ora contempla ancora se stessa come accolta da Dio, e gode di questo dono che le viene fatto. E nel dono di Dio che ha ricevuto vede la benevolenza del Padre per se stessa. Non più vergogna! Non più umiliazione! Ora è anche lei come tutte le donne!
Sono cinque mesi di gioia, cinque mesi di lode a Dio per quel che le ha concesso, cinque mesi di attenzione a se stessa!
È un deserto che prepara una nuova stagione.
Cinque mesi per preparare Elisabetta a vedere il proprio dono come dono di Dio all'umanità, come dono del Padre al Figlio, cinque mesi per prepararsi ad unire se stessa al Padre nel donare il proprio figlio, per considerare il dono ricevuto come un compito, per comprendere che il proprio figlio non è destinato a lei, per una sua personale soddisfazione, ma che quel figlio è per lei l'occasione di donarsi, di sacrificarsi, di offrire se stessa al Signore per la salvezza degli uomini.
Mesi di nascondimento per Elisabetta, perché mesi di maturazione, di passaggio dal possesso egoistico del dono di Dio all'unione di sé, della propria vita, a quel dono! Passaggio dal ricevere al donare, dall'attenzione a sé (che produce vergogna prima e poi vanto) all'attenzione ai progetti di Dio.
Solo dopo questa maturazione, dopo questo passaggio, lento ma necessario, Elisabetta sarà pronta ad incontrare la Madre che l'avvicina al Suo Signore!
Il mio nascondimento, il mio deserto terminerà. È sempre e solo un passaggio. È luogo di maturazione, luogo in cui dovrò staccarmi da me stesso, imparare a distogliere lo sguardo dalla mia vita senza compiacermi se il Padre vi ha posto il Suo. Se Egli mi sta arricchendo di doni, questi non sono per la mia gloria, ma perché la mia vita possa entrare in un servizio più pieno e deciso alla Sua Volontà. Se il Padre mi ha dato qualcosa, me ne chiederà il frutto, perché ha nascosto nel mio cuore un seme; cerco il deserto, cercherò di rimanere nascosto: il seme di Dio, quando germoglierà e porterà frutto, toglierà la mia vita dal buio, dal riparo e la metterà sul moggio. Ma non voglio essere io a farlo. Io non conosco i tempi che conosce Dio. Cinque mesi? Anche più, se Egli lo vuole. E ancora di nuovo, ogni volta Egli vuole usare la mia vita per diffondere la Sua.
GIOVANNI
Il bambino le sussultò nel grembo (Lc 1, 41)
Mi accade di quando in quando di provare una grande gioia, una di quelle spinte interiori che mi fanno esser contento, senza avere un qualche plausibile motivo negli avvenimenti esteriori. La mia vita interiore ha subìto un qualche impulso segreto per cui porta tutto il mio essere ad esultare e godere. L'interrogativo - da dove venga tale gradita sorpresa - mi si scioglie quando contemplo i bambini. I bambini godono di una libertà tutta particolare. Una libertà in cui si possono manifestare con evidenza e sicurezza i frutti dello spirito che li avvicina. Ti avvicini loro con spirito di superficialità o di possessività, ed essi cercano rifugio altrove, fuggono. Ti avvicini con rispetto e con amore, rimangono sereni e limpidi. Ti avvicini con libertà, parli loro di Gesù, doni loro anche solo il Suo Nome con amore per Lui, ed essi gioiscono, aprono cuore, occhi, viso ad una luce nuova e chiara. La gioia della vita, la bellezza del creato, la soavità di una forza interiore li sfiora. Il Nome di Gesù, che giunge ai loro orecchi pronunciato dall'amore, li fa vivere. Anche solo la presenza di Gesù nel tuo cuore, se è viva, li attrae. E i genitori sono costretti, costretti dalla inerme violenza del bimbo, ad avvicinarsi a Gesù, a lasciarsi muovere le viscere più interiori, come se una piccola violenza interna producesse un terremoto nella propria storia, nelle proprie decisioni di autosufficienza, nelle proprie sicurezze raggiunte.
Giovanni, senza coscienza e senza capacità di vedere e sentire, nascosto nel grembo della madre, vive protetto da tutto, da ogni cosa: dall'esterno, solo lo spirito lo può raggiungere e muovere.
Un'altra Madre si avvicina alla sua. Egli non la vede, non la ode. Ma egli sente avvicinarsi lo Spirito del Suo Signore, di colui per cui egli nascerà, e vivrà e morirà. Un incontro misterioso, incontro muto di due vite racchiuse e custodite nell'oscurità. Due vite che hanno già un nome, segreto. Nessuno lo pronuncia ancora, ma esiste già! Il bambino ancora incapace di vita propria è capace di una propria gioia! L'avvicinarsi di Gesù è pienezza di vita, l'avvicinarsi di Gesù è lo scopo di tutto, è raggiungere il tutto. La gioia dei bimbo nascosto è violenza per Elisabetta, la madre. Una dolce violenza che la risveglia, che la rende attenta e la spinge a docilità.
Ella si chiede il perché della gioia improvvisa del proprio figlio, del frutto delle sue viscere: una gioia che raggiunge colui che ancora nulla può decidere. Come può egli gioire, godere, sussultare? Egli che ancora non possiede tutta la vita, è stato raggiunto dalla Vita. La madre s'accorge, ella, che sa come la gioia non venga dal mondo né dalle sue cose e promesse, s'accorge di esser preceduta e avvisata e vinta da chi può ricevere impulso solo dallo spirito. S'accorge che il figlio ha notato la presenza di Colui che dà pienezza e significato ad ogni cosa e ad ogni vita!
Egli comincia già, inconsapevolmente, il suo compito!
Egli annuncia ora alla propria madre la presenza di Colui che la salverà, come l'annuncerà poi con altra veemenza ad uomini legati dal male e bisognosi di colpi violenti e forti per scrollarselo di dosso ed esserne liberi.
Solo nello spirito Giovanni riconosce e riconoscerà il suo Signore. Egli dovrà diffidare di quanto scoprono i suoi occhi e sente la sua carne: questa lo porterà a dubitare, ad essere incerto, ad interrogare. Solo lo Spirito, che precede e non tiene conto di evidenze ed esperienze di odio e di morte, solo lo Spirito gli rivelerà, con la Sua gioia e la Sua pace, la presenza e la grandezza dell'amore dello Sposo.
Come bambino voglio lasciarmi toccare io pure da ciò che i miei occhi non vedono e i miei sensi non toccano. La vita, la vita vera ed eterna del Figlio di Dio, mi raggiunge nel buio, nella notte, quando intelligenza e sentimenti e sensi tacciono, quando non lascio influire su di me gli uomini col loro odio e peccato, quando non bado alle urla che si accavallano accanto a me, quando torno col cuore all’ascolto segreto di Colui che mi avvicina, lui pure segreto: allora la mia vita esulta e in me un nuovo canto, come di bimbo ignaro, dà dolcezza e forza ai miei giorni. Ritorno bambino, e posso udire ciò che nessuno ode, posso esser toccato da ciò che nulla può toccare, posso godere gioie nascoste e così - senza saperlo - risvegliare i cuori del mondo ad accorgersi di un'altra Presenza.
MARIA
Lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia (Lc 2, 7)
Uno spirito strano - se così si vuol dire - possiede le persone che si fanno guidare in semplicità da Dio. È uno spirito di profezia. Esse nemmeno s'immaginano che le loro azioni siano dirette da lontano e preludano fatti lontani, fatti in cui Dio stesso sarà all'opera. Ma lo stesso Dio anticipa segni e parole, lo stesso Dio quasi vuole preannunciare, mettere al corrente i suoi amici più attenti e più semplici, di quali saranno le sue intenzioni e a quali vicende li sta preparando. I fatti della mia vita hanno avuto tutti il medesimo Coordinatore e sono stati permessi e accolti dal medesimo Padre sapiente. Non posso affermare che abbiano avuto il medesimo Autore, perché talvolta ho lasciato agire in me qualcuno che non era Amore di Padre, né Amore di Figlio.
I fatti che mi hanno toccato nella vita, piccoli e grandi, hanno perciò tutti un significato unitario e profondo. Per scoprirlo o per vederlo in semplicità è necessaria, però, la trasparenza dell'acqua viva e la sottigliezza dell'aria pura, è necessario lasciare completamente la vita, con la sua intelligenza, memoria, forza, volontà, in balia di quello Spirito che guida gli eventi verso il traguardo finale.
Un gesto semplice, il più ovvio che Maria poteva compiere e che ha compiuto certamente ignara dei miei pensieri, mi comunica ora messaggi grandi e gloriosi.
Ella ha avvolto il corpo nudo e fragile del suo piccolo figlio in fasce. Lo ha deposto in un luogo semplice e custodito. Certamente ella non pensava e non sapeva che il suo gesto così spontaneo fosse già preludio di un altro gesto che ella stessa avrebbe accompagnato. Lo stesso Spirito muoveva le sue mani ed il suo cuore.
Fasce e grotta cambieranno nome e diverranno sudario e sepolcro: e sarà ancora lei ad avvolgere e deporre. E sarà ancora Lui, quel figlio, ad esser avvolto e deposto. Maria, già dall'inizio posseduta dallo Spirito Santo, che muove la storia secondo disegni d'amore, preannuncia un inizio nuovo, quello definitivo. Quel bimbo uscirà da quella mangiatoia per essere adorato, quel corpo fasciato uscirà dal sepolcro per esser glorificato. Lo Spirito di profezia muove le mani di Maria, senza che lei stessa se ne accorga! Ella sta preparando il Figlio ai passi che lo porteranno alla gloria!
Lo Spirito Santo, che in ogni circostanza e attraverso ogni cosa ci vuol parlare del Figlio, che ci vuol far conoscere e accogliere l'amore del Padre, ecco che fa compiere a Maria un gesto che ci preannuncia ogni cosa.
Il Padre metterà Gesù là dove tutti lo vedranno, ed Egli, il Figlio, si porrà là dove potrà essere mangiato.
Lo Spirito Santo oggi mi avvicina alla mensa ove la mia vita si nutre e cresce verso l'eternità e là lo Spirito stesso mi prepara ancora un Corpo da mangiare, un pane che è la Vita di quel Figlio. Le mani di Maria, senza saperlo strumento dello Spirito di Dio, mi sono profezia, mi danno gioia di sapere che fin dall'inizio quel Figlio è stato deposto in una mangiatoia perché gli uomini - da animali qual sono purtroppo - possano nutrirsene e divenire figli.
Ma lo stesso Spirito è ancora all'opera e soffia e muove mani e cuore d'uomo per annunciare e donare amore e cibo divini.
Saperlo riconoscere? Sì, è importante, ma è un dono di luce che Egli stesso concede a chi non ha pretese!
Piuttosto mi lascerò muovere il cuore e le mani da Lui affinché il mio cuore e le mie mani divengano segni per coloro che sanno leggere, anche se io non so, e affinché il mio cuore e le mie mani portino quell'Amore che, anche se non decifrato, contiene la potenza ed il cuore e la sapienza del mio Dio.
Lo stesso Spirito muove ancora i gesti degli uomini e i fatti del mondo, che divengono e sono per me segni: segni del tempo. Segni che è tempo d'amare, tempo di lasciar fare a Dio, tempo di affidargli la mia vita, tempo di lasciarmi fasciare e deporre insieme al Figlio di Dio dalle mani dell'uomo. E saranno come mani di madre, che senza saperlo, realizzano un amore più grande e preparano un amore più lontano e perfetto.
È Spirito di profezia lo Spirito di Dio. I miei occhi sono quasi costantemente annebbiati così da non vedere se non l'apparenza: come occhi che vedono muoversi i burattini senz'accorgersi di Colui che li muove e dà loro voce!
Vieni, Spirito Santo, perché io veda al di là, intraveda l'Amore del Padre, e accettando ogni evento con serenità mi prepari a quell'evento che mi viene sempre preannunciato e richiesto: la mia deposizione nella mangiatoia del mondo, il mio incontro col sepolcro, e la mia uscita gloriosa verso l'Amore del Padre!
GIUSEPPE
Egli lo chiamò Gesù. (Mt 1, 25)
Vivere con semplicità e obbedire con amore agli inviti e ai comandi di Dio rendono l'uomo saggio e stimato dagli altri uomini. Chi vive così fa tutto con naturalezza e spontaneità, come fosse il modo più ovvio e chiaro, quasi l'unico, di esistere! Quest'uomo sa che tutto ha origine da Dio, e che di Dio è il merito della bontà e della riuscita di ogni pur piccola opera.
Mi verrebbe da arrossire - non dico di vergogna, ma come di una menzogna palese involontaria - quando qualcuno mi ringrazia o mi loda per qualche parola o azione che ho compiuto. Io l'ho fatto solo per obbedienza a Dio, perché ho trovato la sua Sapienza molto opportuna e vera, e gli uomini si fermano a guardare a me, a lodarmi. Quasi come se uno facesse il monumento al martello e allo scalpello dello scultore di un'opera d'arte!
Sento di rubare qualcosa a Dio, ma non posso far nulla! Talvolta non si può nemmeno parlare, bisogna tacere e lasciar credere che, sì, è merito mio! Solo nel profondo del cuore porto il segreto, lodo il Signore, Egli che, unico, è capace di aprire gli occhi miei, e altrui, a riconoscere quanto viene da Lui, anche se tramite le mie mani o la mia bocca.
A Giuseppe dev’essere successo così. Riceveva gli elogi di tutti: egli, falegname, padre di un bambino adorato dagli angeli, dai pastori, dai re magi, temuto da Erode!
Riceveva gli elogi, riceveva stima e onore.
Ed egli poteva solo arrossire. Non poteva dire a nessuno quanto egli solo sapeva. A nessuno poteva dire l'opera dello Spirito Santo. Egli stesso non l'aveva capita ragionando, ma solo per dono divino giuntogli nel sonno, mentre le sue facoltà riposavano. Egli capiva la preghiera che il suo popolo ripeteva spesso: “Dono di Dio sono i figli” e: “Il Signore riempie di beni i suoi amici nel sonno”. Giuseppe non aveva fatto proprio nulla, non aveva nemmeno scelto il nome per il figlio. Anche questo gli era stato donato nel sonno! Nessuno lo sa. Egli non può dirlo ad alcuno. Egli riceve la lode degli uomini, lode ingiusta. Quella lode per lui è memoria della sua croce, dell'ultimo posto che occupa, della continua rinuncia che gli è chiesta.
È anche memoria della sua scelta di obbedienza totale a Dio. È richiamo a quanto Dio ha potuto compiere tramite i suoi ripetuti “sì” alla Sua Volontà, tramite la sua continua e completa disponibilità.
Ecco l'unica cosa, l'unico merito di Giuseppe: ha solo detto sì nel suo cuore. Ha solo ubbidito.
Non ha merito di aver preso qualche iniziativa, né di aver avuto intelligenza per pensare qualche soluzione ai problemi né di aver trafficato talenti particolari di furbizia o di potenza. Non si dice nemmeno se abbia avuto capacità speciali di preghiera.
L'unico suo merito è di aver avuto un cuore libero da iniziative proprie, pronto per quelle di Dio. Un cuore disponibile, abbandonato del tutto e per sempre alla Volontà sapiente di Dio. Egli forse sapeva, comunque credeva, che Dio era più interessato di se stesso alla sua vita, e si fidava. Dio stesso era interessato alla vita della sua sposa, ed egli si fidava. Dio stesso era interessato alla vita del figlio appena nato: gli aveva suggerito il nome addirittura. E Giuseppe sente che la fiducia che Dio gli accorda - a lui, uomo - è così grande, e non la merita di certo! Un unico atteggiamento gli rimane possibile: essere ancor più decisamente abbandonato e ubbidire senza indugi. Lo chiamò Gesù!
Gli uomini che mi lodano un giorno capiranno. Quando Gesù sarà cresciuto ai loro occhi, o meglio, quando i loro occhi si apriranno a vederlo e contemplarlo, allora ridimensioneranno tutto e vedranno la realtà. Allora capiranno che io sono uomo come loro ed essi come me. Ma allora potranno anch'essi rendersi disponibili alla voce di Dio e preoccuparsi solo di realizzare la Parola che esce dalla sua bocca. Quando capiranno che il dono ricevuto da Giuseppe è stata una croce per lui, e quando vedranno che quella croce è stato il dono più grande che avesse potuto ricevere, allora il loro cuore e la loro bocca si apriranno alla lode di Dio. Allora il loro cuore e le loro mani si offriranno all'abbandono ai cenni di Dio. Solo allora capiranno che l'uomo non ha bisogno d'esser lodato, che l'uomo di Dio arrossisce come per un'ingiustizia e una menzogna se riceve onori. E che questi sono solo tentazione e croce per lui.
Ma intanto non posso dir nulla. Solo invocare la luce con grande misericordia su tutti gli uomini perché arrivino a ricevere e pronunciare con amore solo quel Nome: Gesù.
PASTORI
I pastori poi se ne tornarono glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com'era stato detto loro. (Lc 2, 20)
La vita continua con i soliti ritmi. Il giorno succede alla notte, la notte copre le luci del giorno. Gli uomini lavorano di giorno e dormono di notte oppure di notte fanno il male che non possono commettere di giorno. Così costringono altri uomini a vegliare sulla propria vita e sulle proprie cose. Gli uomini non riescono a costruire novità. Le novità durano poco e rientrano nell'ordine della normalità. Le novità degli uomini accelerano soltanto il loro ritmo di attenzione e paura, di gioie smorzate subito dalle sofferenze e dal peccato.
La vera novità può venire solo dal di fuori, dal di sopra. Ed è venuta. Non è un fatto, non è un avvenimento della storia, non è di grande rilevanza. È semplicemente un'altra vita. È un altro uomo, piccolo e indifeso come tutti gli uomini. L'unica diversità è che di lui si è già parlato e sentito parlare.
Il mio cuore d'uomo me lo diceva: verrà uno, lo incontrerò finalmente, un uomo fatto tutto d'amore. Uno capace di amare come io vorrei esserlo, uno capace di lasciarsi amare da me anche se sono così povero e meschino e incapace di grande amore. Deve venire qualcuno che sappia apprezzare quel poco di amore che c'è nel mio cuore e che rimane purtroppo nascosto in mezzo ai miei peccati. Gli uomini vedono questi, verrà uno che saprà vedere quello! Gli uomini non mi ritengono degno e non si lasciano amare da me, vogliono sempre pagare il mio amore, ricompensarmi, darmelo di ritorno. Nessuno accoglie pienamente quel che io voglio donare. Quando verrà colui che avrà un amore così grande da accettare la mia vita in dono, allora sarà un giorno nuovo, allora inizierà una luce senza termine, capace di illuminare ogni tenebra, e ogni tenebra non sarà più così buia da impedire il cammino insieme con gli altri uomini.
I pastori ne hanno sentito parlare. Gente semplice ma, capace di distinguere i belati di ciascuna pecora, e i belati del dolore da quelli della gioia, sa pure distinguere voci d'uomo da voci d'angelo. Essi non cercano segni di grandezza, non saprebbero avvicinarsi a segni di potenza e d'intelligenza. Sanno leggere i segni della povertà, li sanno leggere anche nella notte, perché sono abituati a non vedere nulla! Eccoli avviarsi “senz'indugio” là dove messaggeri di Dio li inviano. Messaggeri di Dio! sì, non c'era interesse nelle loro parole, non c'era paura, non c'era quel che di solito c'è nei messaggi che vengono dall'uomo. Nel messaggio ricevuto nella notte c'era solo amore: un amore nascosto, di cui non si vedeva l'inizio né la fine, ma un amore concreto, con segni concreti. Alla concretezza risponde una corsa. “Andiamo e vedere...”. Trovano solo e nulla più di ciò che s'aspettano. Trovano un bimbo in fasce normali con genitori normali. È un dono per loro? Sì, è un dono, un dono vivo: perché rimanga tale richiede che chi lo riceve si faccia dono per lui. È il dono più grande, perché accoglie la mia vita, accetta che lo ami, così come posso, anche se sono peccatore.
I pastori gli danno la loro voce. Il loro cuore trabocca la gioia di chi si sente amato, di chi si sa accolto, la gioia di chi sa d'esser stato scelto a vedere la Vita. La loro vita non è più quella di prima. Continueranno a vegliare il gregge di notte, andranno ancora in cerca d'erba e di fonti d'acqua, toseranno ancora le loro pecore e presteranno attenzione ai belati: ma sarà un'altra cosa. Sanno che Lui vive per loro, sanno che essi vivono per Lui. La vita non è più chiusa, il cielo non è più una scodella rovesciata sotto la quale si devono affannare, la terra con la sua notte ed i suoi giorni brevi non è più nemica. Ora c'è l'amico.
Anche la mia vita s'è trasformata, come quella dei pastori. Nulla di nuovo, al di fuori. Faccio quel che facevo. Ma dentro tutto è nuovo. Non sono più solo: c'è Lui, l'Amico. È nato, è vivo. Anche se non lo vedo più o se si è nascosto in mezzo agli uomini, c'è. Nel segreto della notte gli ho dato e gli continuo a dare la vita. Egli accetta ogni mio gesto d'amore. Sono peccatore, ma il suo sguardo copre la moltitudine dei miei peccati perché Egli guarda nella notte, e vede anche l'amore nascosto nel cuore.
I pastori tornano, parlando a tutti di Colui che avevano incontrato, con la gioia di chi vive una vita diversa, nuova, luminosa. Anche la mia bocca si apre a parlare di Lui. E di chi altro si potrebbe riempire il mondo, se non di colui che riempie il cuore?
I MAGI
Poi, aprirono i loro scrigni e Gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. (Mt 2, 11)
I tesori degli uomini sono molti. Ogni uomo ne ha nascosto una grande quantità. Li tiene nascosti perché ha paura degli altri uomini, oppure li lascia vedere, li mette bene in evidenza per essere ammirato, essere considerato, esser temuto. Allora il suo tesoro è questo desiderio di vanità o di superbia.
Anch'io ho i miei tesori. Ne ho accumulato e ne ho lasciato perdere molti durante gli anni della vita. I tesori della terra hanno questo vantaggio: perdono valore facilmente. Questo potrebbe essere un aiuto per l'uomo, che dovrebbe esser portato così con facilità a cercare tesori eterni, ma l'uomo invece - il mio cuore d'uomo - non si rassegna con facilità alle delusioni e cerca rivincite. Vuole essere re. Tende ad essere re. L'uomo vede nel re colui che ha libertà, che può fare quello che vuole. Vede nel re colui che viene onorato e servito dagli altri uomini inferiori a lui. Vede nel re colui che possiede tutto ciò che può sognare. In fondo nel re vede colui che può soddisfare senza vergogna e senza impedimenti le proprie passioni.
Ecco il tesoro tenuto nascosto, ciò a cui l'uomo è legato e a cui sottomette tutti i tesori. E l'uomo normale... quest'uomo, vive anche in me. Desidero libertà, poter fare ciò che a me pare bene! Desidero esser amato, esser stimato, vivere a lungo per vedere gli uomini piegarsi davanti a me, vivere sempre! Desidero ricchezze- per fare elemosine s'intende!- ma desidero ricchezze stimate dal mondo!
I Magi avevano queste cose. Ne avevano in abbondanza. Erano veri re! Possedevano oro, ricchezze preziose, che permettevano loro libertà di fare e avere secondo i desideri. Possedevano incenso, l'onore, cioè, e la gloria degli uomini: erano riveriti e serviti, come se il loro volto fosse di luce. Possedevano mirra, la possibilità di rimanere su questa terra a lungo, oltre la propria morte, di lasciare qui qualcosa di sé, almeno il proprio nome o cognome, in modo da esser ancora onorati e serviti nella discendenza! Avevano queste cose, eppure ancora non erano contenti. Cercavano, volevano trovare qualcosa più sicuro di se stessi. In fondo sentivano che - pur essendo re - lo erano solo agli occhi di uomini mortali e secondo concezioni e visuali destinate a finire.
Perciò cercavano. Non mancava loro intelligenza né prudenza per cercare. Anch'essi, pur essendo re, trovano qualcosa solo di notte. La loro intelligenza e il loro oro non fanno luce a sufficienza. Il loro desiderio però è sincero, e colui che scruta i cuori e li vaglia li ha trovati degni della sua amicizia. Egli, il Re dell'universo, il Padre dei popoli, trova che quei cuori di re sono piccoli a sufficienza per poterli riempire di sé. Si serve non di ciò che hanno in più degli altri uomini, ma di ciò che li rende uguali a tutti, per incontrarsi con loro. Si serve della loro umiltà e semplicità. Il segno della stella poteva esser compreso dalla loro intelligenza, ma accolto solo dalla loro umiltà. E solo la loro semplicità poteva guardare il bimbo in braccio alla madre con occhi capaci di vedere in lui divinità e regalità. Un grande cambiamento avviene in loro, come per miracolo. Quel bimbo sostituisce la loro vita. È lui il vero re. È lui che deve ricevere onore e gloria dagli uomini, è lui che saprà amministrare l'oro con disinteresse e senza desiderio di arricchire, è Lui che deve rimanere per sempre su questa terra! È Lui che deve poter fare ciò che vuole, perché ciò che Egli vuole sarà garanzia di libertà per tutti! Hanno trovato colui cui appartiene il loro titolo di re, colui cui può appartenere anche il loro regno con la propria vita! Nelle sue mani si può mettere l'oro, garanzia di libertà, davanti a Lui l'incenso, garanzia di onore e di gloria, a lui si può donare la mirra, pegno sicuro di un futuro stabile.
Una piccola luce nella notte, come lampo veloce che squarcia la tenebra dei pensieri del mondo, ha rivelato anche a me la grandezza di quel bimbo. Nelle sue mani i miei tesori più preziosi divengono ancor più splendenti. Quella piccola luce diviene a poco a poco l'unica, diviene sole costante. I miei tesori apparterranno a Lui. Egli è ancora piccolo, li riceverà la Madre per Lui. Depongo ai suoi piedi quanto lo scrigno del mio cuore custodisce gelosamente: l'amore alle ricchezze, il desiderio di gloria, la volontà di libertà, la sete di futuro assicurato da chi si ama. Nelle sue mani i miei tesori porteranno più frutto. Io mi ritrovo il cuore vuoto: vuoto di libertà, vuoto di desiderio d'avere, vuoto di affetti umani. È vuoto ma libero! Libero di ricevere la vita di quel Bimbo con i suoi desideri e le sue ricchezze! Quel Bimbo è ricco di povertà, è ricco di obbedienza e di castità! Quando Egli riversa in me questi suoi tesori ricevuti nei cieli, la mia vita diviene vita di re, e nulla più cerco e nulla più nascondo. Questi tesori li posso donare senza perderli, essi non diminuiranno mai il loro valore. Mi terranno per sempre nascosto nel Cuore di Colui che tutti i cuori ricercano!
ERODE
All'udire queste parole il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. (Mt 2,3)
I turbamenti degli uomini sono di varia natura, derivano da varie cause, ma sono tutti segno che un terremoto più o meno profondo sconquassa le fondamenta. Ogni uomo crede e vuole che le proprie fondamenta siano stabili, eterne. L'edificio della vita che vi ha costruito sopra deve arrivare intatto oltre la morte! Se si muovono le fondamenta tutto è in pericolo, tutto perde la sua sicurezza, bisogna iniziare daccapo. L'uomo vorrebbe evitare le fatiche interiori, desidera perciò che tutto rimanga saldo. Saldi e validi i desideri nutriti per tutta la vita e che lo hanno fatto faticare e sudare: desiderio di ricchezza, di un lavoro stabile, di una posizione sociale, di compiti onorati e invidiati, di una famiglia propria, di una casa. Queste fondamenta della vita le apprezza anche negli altri, anzi le vede come uniche anche per loro, e in base ad esse giudica ed elogia l'agire degli uomini. Così tutto procede nell'ordine, nella regola, nella normalità. Così la propria vita conserva valore agli occhi di tutti.
Erode stava tranquillo. La sua posizione di re normale, di re invidiato e di re rispettato, era sicura e ferma. Nessuno osava mettere in discussione la sua sicurezza, ed egli godeva di poter continuare senza pensieri il suo mestiere di re. Ciò che faceva era bene lo facesse: glielo dicevano tutti. Ma cos'è successo quel giorno? Un terremoto? Sì, un terremoto interiore di potenza inverosimile. Qualcuno, gente ignara e strana, gente contenta e seria, va a chiedere proprio a lui una notizia. Egli non la conosce, ma da essa sorge per lui un interrogativo. Un altro re? Dunque io chi sono? Forse qualcuno guarderà a lui invece che a me? Ameranno me meno di lui? Il terremoto si fa via via più tremendo. Scuote le fondamenta: allora ho sbagliato tutto? Quello che ho fatto non l'avrei dovuto fare? Forse che avrei dovuto tener conto che c'era un altro re? Non posso continuare a fare e vivere come finora? Devo tener conto di lui, dei suoi desideri e delle sue volontà? Il terremoto coinvolge tutti, tutti quelli che tenevano conto della sua vita. Anch'essi si sentono insicuri. Cosa sarà? Se colui che abbiamo servito non è sicuro né stabile, dovremo cambiare? Il terremoto è generale e generale il turbamento e l'incertezza. Questo succede perché essi non sanno. Né Erode né gli abitanti di Gerusalemme sanno che il re che è nato non porterà sul capo corone di gloria, non cercherà d'esser servito, non sostituirà nessuno. Egli sarà un re che porrà nuove fondamenta ai cuori degli uomini, alla vita e alla fatica di ciascuno e all'agire di tutti. Egli stesso sarà fondamento stabile ed eterno per ognuno e per la città. È venuto per sradicare ciò che era piantato su terreno franoso e instabile e a piantare in terra piana e ospitale. È venuto per fare da roccia a chi vuol costruire per sempre! È venuto per aprire orizzonti infiniti a chi vede solo il giorno seguente. È venuto per dare la gloria di Dio all’uomo, che sa cercare solo quella della terra.
Se Erode lo sapesse, il suo turbamento diverrebbe gioia irrefrenabile! Se la città lo credesse, sarebbe festa continua! Ma l'uno e l'altra sono così attaccati al proprio passato, che non accettano altre garanzie per il proprio futuro. Tengono gli occhi rivolti all'indietro, e d'ora in avanti non vogliono se non ciò che già possiedono. Hanno paura di una vita nuova, di nascere ad un nuovo sole.
Erode non è unico. Anch'io sono stato turbato.
Quando credevo d'esser sicuro e che nessuno potesse dirmi più nulla, e la mia vita si svolgeva come io ero convinto fosse bene e volevo, allora qualcuno mi ha riferito di un altro re, diverso da me. Egli era re per sempre ed aveva anche lui dei desideri, una volontà, e qualche progetto sulla mia vita. È stato un terremoto e rimase terremoto che turbava il mio intimo fino al giorno in cui ho detto al mio cuore: taci, perché è la Sua Voce che deve parlare. Egli conosce la storia, ha in mano le chiavi del futuro e a lui appartiene ogni cosa. Ogni vita è preziosa ai suoi occhi, e la mia regna di più quando serve a Lui.
Allora il terremoto è cessato, il turbamento è divenuto pace profonda e mai più nulla ne ha saputo agitare i fondali. Grazie al nuovo Re il mio presunto regno fondato solo sul mio cuore ha trovato stabilità nel servire a Lui. Ciò che credevo mio l'ho dato a Lui ed Egli a me ha dato del Suo.
Quel terremoto continua ad agitare la terra e molti cuori restano turbati. Ma quando qualcuno consegna al Re la propria vita e cerca solo la Sua regalità su di sé, allora giunge una pace nuova, mai goduta prima! Quando qualcuno accetta che Lui guidi la vita, quest'uomo scopre d'esser nato a vita nuova, ad un nuovo Sole. E questa vita e questo sole non saranno più raffreddati da alcuna nebbia che disorienta. La città che seguiva i miei desideri rimarrà ancora turbata finché, come me, non accetterà il nuovo Re. Allora sarà festa e gioia grande. La sto attendendo.
SIMEONE
Lo prese tra le braccia e benedisse Dio:
“Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace”. (Lc 2, 28)
È risaputo che i momenti dell'attesa sono i momenti in cui l'uomo vive maggiormente: in quei giorni e in quelle ore in cui egli aspetta qualcosa o qualcuno, gioisce, lavora, prepara, pensa e mette in moto tutte le sue energie.
Ma non è altrettanto risaputo dagli uomini che le varie attese, tutte le attese, deludono non appena arrivano a compimento. Solo una delle molte attese, quando giunge al termine, riversa pace e pienezza per sempre nel cuore. Tutte le attese, quando sono colmate lasciano spazio ad altre. Solo una è diversa: è quella di chi attende Gesù. Chi attende Gesù, quando Egli arriverà, entrerà nella pace stabile, perché Gesù introduce nei cieli, nella pienezza di Dio. Egli è la pace, e quando arriva in un cuore, in una vita, non può che riempirla, portarla alla perfezione.
Io attendo Gesù. Già mentre lo attendo Egli addirittura anticipa il frutto del dono della Sua Presenza. Già mentre lo attendo, questa attesa colma il cuore di gioia e serenità! come già fosse presente. Io attendo Gesù. Non vale la pena attendere qualcosa o qualcun altro: passerà, e rimarrò vuoto. L'esperienza parla chiaro. Non solo la mia esperienza, ma quella della storia, quella dei popoli dice: l'unica attesa che appaga è quella di Gesù. E quando Egli arriva la nostra vita ha raggiunto il culmine e potrebbe andarsene dal mondo, se non fosse per qualche compito nei riguardi di coloro che ancora attendono. Così come s. Paolo afferma dopo esser stato raggiunto da Gesù: meglio andar via da questo corpo, a meno che non sia utile a voi che io rimanga!
Simeone, forse per l'età o forse perché non intravedeva compiti speciali, dichiara solennemente e apertamente la fine della sua vita. Ha finito di attendere, ha finito di vivere. Ha visto quel bimbo, ha visto Gesù, ora non gli serve più vedere altro. Non gli serve più vivere, perché viveva per vederlo, per attenderlo. Quel bimbo, che sa solo portare il proprio Nome, riempie le attese di quell'uomo. Sulle sue braccia quel Nome ha un peso incalcolabile, ma è quel Nome che porta la sua vita, è quel Nome che addirittura porta i secoli del suo popolo, è quel Nome che riveste di luce uomini ed eventi di ogni nazione che è vissuta e vive e vivrà sotto il sole.
Sulle sue braccia il Nome di Gesù diventa tanto grande da occupare tutto lo spazio, anche se le fasce nascondono un peso leggero. Simeone è vissuto nell'attesa di quel giorno. “Lo vide e si rallegrò”. Quel bimbo non gli ha dato nulla, non gli ha regalato oro e nemmeno parole di sapienza. Quel bimbo non gli ha dato di vedere segni, né gli ha promesso alcunché. Proprio per questo la gioia è grande nel cuore di Simeone, perché è libera. È una gioia che lo rende libero da se stesso. È la gioia che viene dal compimento di un'attesa d'amore vero.
L'amore vero attende Gesù perché è bene per Lui che arrivi, perché Egli riceva gloria, perché Egli possa svolgere il suo compito, perché Egli porti a compimento la Sua missione. L'amore vero attende Gesù per poterglisi donare, per potergli dare concretamente la vita, per potergli mettere a disposizione giorni, anni, energie, salute, volontà, affettività, memoria e intelligenza. L'amore vero attende Gesù per lasciarsi salvare da Lui, secondo il suo modo di salvare. Simeone attendeva Gesù con amore vero: ora che Gesù è giunto egli non ha più nulla da attendere!
Egli non aspetta Gesù perché gli allunghi i giorni, perché lo renda accetto agli uomini, perché gli allevi la sofferenza, perché lo sollevi dalle sue responsabilità. No. Lo attende perché Egli è il Salvatore: Lui sa come salvare. Ora che c'è il Salvatore i popoli sono salvi, il mondo è a posto, le speranze hanno di che esser colmate.
Io attendo Gesù. Mi succede con frequenza di attendere per un attimo, o per un giorno, o per un mese, qualche cos'altro. Poi m'accorgo che è tempo perso. Devo imparare a riempire tutte le attese con l'attesa di Gesù, o a sostituirle con quella. Anche per gli altri io attendo Gesù. Molti mi avvicinano con attesa nel cuore. Aspettano qualcosa da me o dal mondo o da se stessi. Io li aiuto quando li deludo subito, affinché non attendano altri che Gesù. Altrimenti preparo per loro delusioni più grandi. Per te io attendo Gesù!
Per me e per te vorrei attenderlo solo con amore vero: desidero che Egli possa trovare accoglienza, che Egli possa parlare ed essere ubbidito con prontezza; desidero che Egli possa incontrare gli sguardi degli uomini, il mio, e purificarlo; desidero che Egli possa trovare qualcuno pronto a mettersi a disposizione per i suoi desideri: l'attesa è preparazione del mio cuore a non avere progetti, volontà, inclinazioni, hobbies, occupazioni buone; preparo vuoto il mio cuore, perché Egli mi trovi subito disponibile ad amarlo, senza perdere tempo, senza che Egli debba attendere che termini qualcosa che io ho voluto ...!
Quando Egli viene la mia vita può scomparire: solo la Sua dovrà apparire nei giorni e nelle opere che Egli mi chiederà di offrirgli perché possa inaugurare salvezza in altri cuori.
ANNA
Serviva Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. (Lc 2, 37 b)
Agli uomini piace comandare, non servire. 0, perlomeno, vogliono poter fare quel che loro pare. La libertà è ambita e cercata con ogni diligenza. Mi sono accorto però che anche la parola libertà può esser tradotta con l'altra, servire! Difatti noto che quando cerco libertà, è per poter servire me stesso! Voglio servire le mie voglie, i miei progetti, talvolta addirittura le mie passioni. E chiamo questo servizio col nome di libertà! Gli si adatterebbe meglio la parola schiavitù. È una schiavitù che ubbidisce agli umori del momento e che si lascia trascinare dalle condizioni atmosferiche come pure dai giudizi degli altri uomini. Ha la parvenza di libertà, ma non porta i frutti della libertà vera del cuore, non porta a crescita delle doti personali, né a sviluppare le proprie capacità di amore, di bontà, di disponibilità, di generosità, di fedeltà, né a dare un'impronta originale alla propria vita.
Questo tipo di libertà che cerca di servire se stessi porta il cuore in preda a un'infinità di paure: paura di non godere abbastanza, paura di esser da meno degli altri, paura del giudizio dei vicini, paura delle intenzioni degli uomini, paura d'ammalarsi, paura di non arrivare a fare, paura di perdere il posto, paura di non guadagnare abbastanza, paura di morire presto e paura di morire tardi... La libertà diventa schiavitù delle cose e schiavitù della persona!
Anna, donna anziana di ottantaquattro anni, non cercava la parola libertà. Ella era in armonia con la parola "servizio". Voleva servire. Le sue attenzioni erano rivolte a Dio, ai Suoi desideri, alla Sua Volontà, alla Sua gloria. Le sue reazioni e il suo sguardo verso gli uomini e le cose erano improntati alla luce che veniva dalla Sua Presenza. Questa Presenza per lei era più importante della propria: è Lui che deve venire amato dagli uomini, è Lui che merita di esser ascoltato, è Lui che, pur non avendo bisogno di nulla, è degno di possedere tutto. È la Sua Sapienza che regge con previdente amore tutte le cose e le porta alla loro perfezione con pazienza, magari attraverso tempi lunghi, ma in modo sicuro. Anche Lui c'è ed è presente in un modo più stabile e continuo che non gli uomini e le cose. Per Anna la Presenza di Dio è divenuta luminosa tanto da non distinguere più il giorno dalla notte. Che ci sia il sole o che appaia la luna a solcare il cielo non cambia nulla nel cuore: là, nel fondo dell'anima, c'è una luce abbagliante che pervade tutto.
Anna serve Dio. Ha scoperto nel servizio di Dio una grandezza tale da non lasciarlo più né nella maturità né nella vecchiaia. Il servizio di Dio la rendeva libera dalle cose e dalle persone. Ella manifestava questa libertà e nello stesso tempo la continuava a ricevere tramite il digiuno e la preghiera.
Il digiuno manifestava la sua libertà dalle cose, e da se stessa, dalle proprie voglie e addirittura dalle proprie esigenze: questo digiuno era il segno concreto della Presenza di Uno più grande di se stessa e del proprio corpo, di Uno degno di un'attenzione maggiore!
La preghiera manifestava la sua libertà dalle persone. Il rapporto con Dio è più decisivo di quello con le persone che stanno attorno, e occupa il cuore riempiendolo del Suo amore per tutti! Se Anna fosse stata preoccupata di servire se stessa, l'avrebbe tormentata il desiderio di aver rapporti diversificati coi dottori della legge che insegnavano nel tempio e con i visitatori e con coloro che chiedevano l'elemosina. La preghiera, questo rapporto d'amore esclusivo con Dio, la rendeva libera d'incontrare chicchessia, di cogliere da ciascuno i segni della Misericordia del Signore e di dare a tutti con libertà le ricchezze del suo cuore. Digiuno e preghiera erano per lei continua fonte di libertà. Anna, però, non si preoccupava di essere libera: non era questo che desiderava, ella voleva solo servire il Suo Dio!
Vedo e avverto spesso nelle persone che m'incontrano un modo particolare di trattarmi. Semplicemente perché sono prete. Non c'è libertà nel loro cuore. La mia presenza li costringe ad esser diversi. Noto anche in me questa forma di schiavitù. E la noto soprattutto quando sono vuoto di preghiera. La preghiera - quest'azione considerata perditempo dai più - mi dà libertà. La preghiera m'immerge in Dio e mi fa guardare agli uomini con amore, con quell'amore che mi distoglie dalle reazioni istintive che si hanno verso gli uomini, con quell'amore che mi fa vedere in essi il loro essere amati dal Padre e non il loro compito nè le dimensioni dei loro diplomi. Preghiera e digiuno, strumenti di libertà. Il digiuno, inteso non solo in senso stretto, ma come distacco reale dalle cose, come disponibilità a donare e lasciare ad altri quanto ritenuto mio, quanto ho faticato ad avere, questo digiuno è, ad un tempo, prezioso frutto e sorgente di libertà. Digiuno, quale abbandono delle esigenze del corpo e del cuore perché la Presenza di Gesù è più grande e più vera, è grande dono di libertà.
Digiuno e preghiera sono un servizio di Dio che arricchisce la vita dell'uomo. Mi sembra d'essere io a servirlo, ma in realtà è Lui che, attraverso queste mie azioni, serve la mia esistenza e la fa crescere a dimensioni d'eternità, fino ad arrivare ad accogliere la Presenza del Figlio!
Il Figlio, giunto nel mio cuore, mi dà sensazioni di parentela nuova, mi dà certezza di abitare già nella casa del Padre, dov’egli, giorno e notte, vive per me.
SOMMI SACERDOTI E SCRIBI
Riuniti tutti i sommi sacerdoti e gli scribi del popolo
s'informava da loro
sul luogo in cui doveva nascere il Messia. (Mt 2,4)
Sono sommerso dai libri. Armadi, scaffali, soffitta pieni di libri. Libri antichi e riviste all'ultimo grido. Chi li ha scritti fa invidia. Altre volte fa pena. In ogni caso io faccio pena a me stesso. Ho passato dei periodi della vita, mesi ed anni, in cui mi conduceva la convinzione che il sapere, l'istruzione, la conoscenza di quanto era scritto su quelle pile di carta fosse vita e salvezza. Leggevo di giorno, leggevo di notte. Sottolineavo, consigliavo ad altri di leggere. Non erano letture cattive, né frivole. Erano buone. Parlavano di Dio, della conoscenza che gli uomini hanno o vogliono avere di lui. Parlavano di Gesù, del suo insegnamento, della sua opera. Mi facevano conoscere sensi e significati espressi e presunti della Parola di Dio. Gli autori di quegli scritti dovevano aver avuto un grande amore per il Signore e per la Sua Parola. Io però leggevo per conoscere, per sapere, per diventare grande, per riempire la mia memoria di concetti e belle frasi sul mio Dio, per stare al passo con quelli che parlavano di Lui, per poter insegnare ad altri quanto con fatica ed entusiasmo mi dava occasione di apparire sapiente ed informato. L'amore per il Padre e l'obbedienza a Gesù teoricamente non erano esclusi, ma non trovavano tempo né spazio né decisioni per svilupparsi. Volevo prendere informazioni su Dio cercando d'illudermi che questo fosse grande amore per Lui. Ma con Lui non perdevo tempo. Lo perdevo con le informazioni. Ora so che questo mio comportamento era sprecare tempo ed energie ed esser chiuso all'azione dello Spirito.
I sommi sacerdoti e gli scribi interrogati da Erode sfoggiano la loro erudizione. Essi sanno dove deve nascere il Messia. Lo sanno con precisione. Lo hanno scoperto nei libri dei profeti. Hanno usato memoria e intelligenza non comuni per individuare nei lunghi rotoli di pergamena queste notizie. Studiano e sanno. Sanno dare informazioni a chi le chiede. Sono a disposizione addirittura del re. Quale onore per loro poter spiegare al re la notizia- e convincerlo!- che il Messia sarebbe nato a Betlemme, un piccolo villaggio vicino, di poca importanza, a parte questo riferimento! Quale prestigio hanno presso la gente, essi, unici a sapere queste notizie! La gente le conosce perché essi le hanno comunicate. Ma essi le sanno perché le hanno lette! Agli occhi degli uomini sono molto fortunati. Forse anche il Signore gode che essi sappiano, che abbiano studiato con attenzione e impegno e diligenza in modo da saper quello che Egli ha fatto scrivere ai profeti. Ma il Signore, il Padre, ha un'altra attesa. Egli aveva dato quelle notizie tramite i suoi profeti perché il Suo Figlio, destinato a pascere il Suo popolo, fosse accolto, cercato, amato, ubbidito, ascoltato, adorato, esaltato. Dio aveva fatto sapere quanto utile e necessario perché l'uomo si lasciasse salvare da Lui tramite il Suo Messia. Il Padre s'attende dagli uomini un cuore pronto a adorare e glorificare il Suo Figlio, un cuore come quello dei Magi, ad esempio.
Essi, gli scribi e i sommi sacerdoti, si accontentano di sapere. Ad essi non manca nulla. Godono stima e reputazione, sono importanti. Tutti si inchinano al loro passaggio e fanno attenzione alle loro parole. Non serve null'altro alla loro vita. Quale salvezza potrebbero ancora sperimentare? Se verrà il Messia, anch'egli si piegherà davanti a loro: certamente terrà conto della loro sapienza, lascerà che continuino a studiare le Scritture, ad informare il popolo, ad esser cercati e riveriti. Non c'è bisogno di muoversi per cercare il Messia. Lasciano che si muovano gli altri, i pagani, i poveri, gli ignoranti. Essi non lo cercano, non ne hanno bisogno. Quando verrà, anch'egli li consulterà ed essi saranno ancor più onorati!
La mia posizione davanti alle Scritture e davanti a Dio sarebbe ancora questa, se non fosse intervenuta la Sua misericordia. Egli mi ha permesso di scoprirmi peccatore, e ancora più peccatore di me stesso, tanto da battere spesso i miei record di peccato. E così io, che sapevo tanto di Dio, mi ritrovavo lontano dai suoi desideri. La mia conoscenza di Lui non m'aiutava a uscire, a salvarmi. Ho dovuto cercare il Suo amore. Ho dovuto presentarmi a Lui per lasciarmi amare e usare misericordia. Questo passo mi ha fatto conoscere il mio Dio in un modo nuovo, col cuore, non con i libri. Da allora ho cominciato a perdere tempo con Lui, non più con ciò che gli uomini avevano scoperto di Lui; ho cercato Gesù nella grotta buia di Betlemme… Se gli altri non mi avessero più chiesto nulla di Dio, che importava? Le mie risposte più sapienti non sarebbero valse quanto quella che essi stessi avrebbero potuto intuire solo vedendomi inginocchiato davanti alla culla di un Bambino, o davanti al sepolcro di un Risorto, o davanti ad un Pane spezzato per la fame degli uomini.
Ed io pure non chiederò più nulla di Dio se non a coloro che lo hanno amato e cercato col cuore, a coloro che hanno accolto il Suo Figlio nato a Betlemme!
Non sono le mie parole, quelle racimolate sui libri, che donano agli uomini speranza, ma il mio correre per primo da Lui, per vederlo, per ascoltarlo, per dargli il mio amore e la mia forza, per essere pronto ai suoi cenni. Gesù attende con pazienza, anzi, non attende me: attende solo lo sguardo del Padre. Non vado da Lui perché Egli abbia bisogno di me, ma perché, lontano da Lui, sarei sempre come l'acqua che non s'acquieta se non quando giunge al mare.
MARIA E GIUSEPPE
Giuseppe, destatosi, prese con sé il bambino e sua madre nella notte
e fuggì in Egitto. (Mt 2,14)
Quante volte mi sono sentito rivolgere domande come questa: ecco, col mio andare a Messa, col mio essere onesto e buono, che cosa ho guadagnato? Proprio a me, che ho cercato di ubbidire al Signore, devono succedere queste disgrazie? Che cosa ho fatto di male?
Sì, nella mentalità del mondo c'è questa convinzione: chi fa il bene merita il bene, chi fa il male merita il male. Chi soffre deve aver combinato qualcosa. E se non ha combinato nulla di riprovevole c'è un'ingiustizia da parte di... da parte di Dio! Qualcuno, a dir il vero fin troppi, arrivano a questa bestemmia!
Credo che questo atteggiamento derivi da una particolare interpretazione delle parole bene e male. Dio deve intendere queste parole in modo diverso dall'uomo, in modo certamente più completo, più profondo, più lungimirante, più esatto. L'uomo misura il bene con il metro degli ottant'anni e del “tutto subito». Dio lo misura col metro dell'eternità e del “tutto a suo tempo”. Così l'uomo non capisce le intenzioni e i metodi del suo Dio. L'uomo, ancora, misura il bene partendo da se stesso e arrivando fino a se stesso, e così il suo metro diventa un cerchio che esclude gli altri e diventa catena. Dio misura il bene partendo dal Suo amore per noi, da noi, e arrivando a tutti: il suo metro così non termina più e diviene accoglienza perenne.
Sarebbe bello se l'uomo usasse il metro di Dio per misurare il bene! Questo, però, spesso è impossibile, perché le nostre braccia non riescono ad allargarsi quanto le Sue per tenere il suo metro, e i nostri occhi non sono alti abbastanza da vedere ove giunge!
Cercherò almeno di non usare il metro dell'uomo e di lasciare Dio libero di usare il Suo. Tu sai, Padre, cosa è bene per me. Tu sai cosa è bene per la Chiesa. Tu sai cosa è bene per il mondo intero e per le generazioni future. Se mi capita qualcosa di male, tu sai già il perché, anzi, hai già previsto nei tuoi progetti di usare tale… «disgrazia» come un gradissimo dono di un amore più grande; succede proprio come quando il muratore tralascia di mettere i mattoni nel muro della casa: quel vuoto diventerà finestra perché entri il sole, diverrà porta perché entri l'amore!
Giuseppe e Maria devono aver ragionato in questo modo mentre quel dono immenso che avevano ricevuto, quel Bimbo, cominciava a diventare pesante, a infiacchire le braccia e stancare gambe e piedi, e obbligava a lasciare parenti e amici, lavoro sicuro e casa pronta, per andare raminghi chissà dove!
Il luogo dov’erano diretti ricordava loro un altro Giuseppe, al quale pure l'amore di suo padre era costato esser venduto, vivere da schiavo e in catene. Ma il Suo Dio lo aveva accompagnato fino nel fondo più buio delle prigioni egiziane, nella disgrazia più grande. Quel Dio aveva misurato i tempi che l'uomo non misura mai, e aveva preparato nel dolore un futuro di salvezza e di speranza. Giuseppe e Maria ricordavano che Dio conduce al bene tutte le cose per coloro che gli sono figli, che Egli mette alla prova e dà vittoria all'umile che si sottomette. Ricordavano che Dio ha tempi più lunghi da preparare che non i nostri. Questi ricordi divenivano, in Maria e Giuseppe, forza e gioia. Gioia e forza per vincere le tentazioni del mondo che talvolta trovavano voce in persone fino ad allora amiche: che ti serve esser padre del Figlio di Dio? cosa ti giova esser madre del Salvatore? che tipo di re è questo vostro figlio? non è tutto un inganno?
Maria e Giuseppe rendevano il proprio silenzio ancor più silenzioso. Chissà come sono grandi i disegni di Dio! Se Giuseppe venduto schiavo è divenuto viceré d'Egitto, quale gloria preparerà Dio per questo bambino! Dio è grande, conosce la storia del futuro. Se la vuole preparare con la nostra sofferenza, con la nostra fatica, con la nostra ancor più grande povertà, eccoci! Se la nostra vita può servire per la gioia di molti uomini, e perché molti uomini possano divenire figli per Dio, eccola! La doniamo a questo bambino. Se noi dobbiamo soffrire così per Lui, chissà quanto dovrà Egli soffrire per noi!
Dio è grande, Dio sa, Dio conduce. Noi siamo suoi. La nostra vita ai Suoi occhi è più preziosa che ai nostri, perché è sua! Ci lasciamo condurre da Lui anche nel deserto, anche nel buio, nella notte. Le mani degli uomini non possono che operare i disegni di Dio per la salvezza e l'amore. A Dio sia gloria!
Giuseppe e Maria non vedevano più che quel bimbo dato alle loro mani. Purché Lui viva, purché Egli sia custodito, purché Egli cresca, noi possiamo sopportare tutto. “Tutto posso in Colui che mi dà forza”.
Il metro dell'amore di Dio aveva raggiunto Maria e Giuseppe: ed essi si lasciavano misurare da quello, e non ne volevano un altro.
Nemmeno io ne voglio un altro. So che il mio Dio è Padre e non cede a nessuno la Sua Paternità. So che la mia vita gli è preziosa. Nessuno mi spaventa più nemmeno se mi dice che è inutile il mio pregare e che non serve il mio esser obbediente e che il mio Dio non paga bene. Non uso più il metro degli uomini. Bene per me è ciò che Dio vuole per me, e ciò che Lui permette per me. E so che questo è il bene non solo per me, ma anche per quelli che me ne vorrebbero privare allontanandomi dal Cuore del Padre. Proprio come la fuga notturna di Giuseppe e Maria è stata un bene per loro, e per me!
GESU'
Perché mi cercavate?
Non sapevate che io devo occuparmi
delle cose del Padre mio? (Lc 2, 49)
Cercare Gesù.
Un'impresa talvolta angosciosa. Sembra di non vederlo più, di non sentirlo, di averlo perduto per sempre. Ti sembra che la Sua presenza, così dolce, così bella e soddisfacente, che ti dava gioia di vivere, sia nell'esser solo che nello star con tutti, sia scomparsa. Ed è come fosse scomparsa la vita. Tutto diviene buio, tutto rimane vuoto, sembra d'esser stati ingannati. Perché? Mi pare d'averlo intuito e lo voglio dire a molti. Difatti trovo molte persone, anziane e meno anziane, che mi confidano d'aver perduto la fede. Sono disperate - o quasi - perché ritengono di non poter più vedere Gesù né amarlo né gustarne la presenza. Qualcuno continua con sofferenza a cercare Gesù, il Gesù dell'infanzia, della propria infanzia spirituale, quel Gesù “tutto per me”, quel Gesù “bambino” che ti lascia l'idea e la soddisfazione di poter dire di vivere per Lui. A queste persone generalmente io dico: finalmente! finalmente hai perduto Gesù! finalmente Gesù è morto in te! ecco l'ora nuova, l'ora vera della tua vita!
Maria e Giuseppe cercavano il loro fanciullo. Lo cercavano “angosciati”. Lo cercavano tra parenti e conoscenti, tra gli uomini. Lo cercavano giorno e notte. Perduto lui è perduto tutto. La vita, destinata da Dio a far crescere e custodire il Suo figlio, è del tutto fallita. Non c'è più quel figlio per cui vivono, per cui soffrono, per cui sono stati scelti fra tutti. La loro angoscia è più che comprensibile, più che normale. Dodici anni prima quel figlio lo avevano portato al tempio, e offerto al Signore. Poi, col riscatto di due colombe, lo avevano riavuto. Il figlio di Dio era loro figlio. Avevano il segreto onore di vivere per Lui e con Lui. Ora devono tornare al tempio, non più a portarlo, ma a prenderlo. Egli è là. Salendo la gradinata Maria e Giuseppe devono aver ricordato che molti secoli prima, su quello stesso monte, ove poi era stato costruito il tempio, era salito Abramo per consegnare a Dio, tramite coltello e fuoco, il proprio unico figlio, Isacco: un figlio avuto come dono di Dio. Essi erano proprio in quel luogo. Quale presagio, quali presentimenti si rincorrevano nel loro cuore! Dare a Dio il proprio figlio, quello ricevuto in consegna da Lui! No, non è facile, non è comprensibile, non ci riescono. Dopo dodici anni di fatiche, di fede messa a dura prova, di dono totale di sé, non è possibile! Essi non riescono a consegnare quel figlio per sempre a Dio: ma ecco, è lui stesso che, con dolce violenza, separa la propria vita dalla loro, proprio come se il coltello di Abramo arrivasse fin qui a penetrare nel cuore... non del figlio, ma dei genitori: “Perché mi cercavate? non sapevate che devo occuparmi delle cose del Padre mio?”. Il sospiro di sollievo per averlo trovato si trasforma in silenzio profondo. Hanno trovato il fanciullo, ma non è più quello di prima, non è quello che cercavano. Cercavano il figlio che apparteneva loro e trovano un figlio che a loro non appartiene più. Cercavano un Gesù che doveva ubbidire loro, dar loro gioia e soddisfazione, che doveva dar loro certezza di essere amati da Dio e di essere a posto, e trovano un Gesù che ubbidisce a qualcun altro, che propone anche a loro un’ubbidienza nuova. Se Egli ubbidisce al Padre, essi non possono più comandargli, anzi, dovranno sottomettersi, rimanere in ascolto del Padre, lasciare libero il Figlio di obbedirgli, obbedire essi stessi all'obbedienza del Figlio. Cercavano un figlio riconoscente per le fatiche affrontate per lui e trovano un figlio che chiede nuove fatiche senza ricompense. Il Gesù “tutto per loro» è morto, il Gesù che dà soddisfazione e li lascia contenti di possederlo è morto per sempre. Non lo avranno più. Potranno solo vivere con un Gesù che vive per il Padre, che cerca di far contento Lui solo. Non potranno più comandargli, potranno solo osservarlo e ubbidirlo e donargli la propria vita sapendo che non dirà grazie, ma che la presenterà al Padre insieme con la Sua.
Un'esperienza così l'ha avuta Maria di Magdala poca più di vent'anni dopo. Cercava Gesù nell'orto della sepoltura. Quando l'ha trovato, non era più un Gesù per lei: non lo poteva più trattenere. Era un Gesù che la mandava ad annunciare con la parola e a testimoniare con la gioia che Egli era vivo. Ha trovato un Gesù nuovo, che accoglieva la sua vita e le sue energie, per donarle agli uomini come proprietà Sua. Ha trovato un Gesù che non dava soddisfazioni e gioie, ma compiti e missione. La gioia stessa di Maria, però, sarebbe cresciuta, divenuta diversa, anche più grande, al sapere semplicemente di appartenere a Lui, di essere sua proprietà e suo strumento.
L'esperienza di Giuseppe e Maria è quella che io dovrò attraversare. Ho ricevuto doni e doti, una vita e un compito, ho ricevuto anche la vita di Gesù da custodire. Il Padre, colui che me li ha dati, vorrà assicurarsi che siano ancora suoi, che io non me ne sia appropriato. Egli stesso perciò mi chiederà, ripetutamente, di donarglieli, di staccare il cuore da essi, di sacrificarli. Mi chiederà di fare come Abramo. Mi chiederà di non cercare la mia gioia e la mia sicurezza dai suoi doni, nemmeno da Gesù, ma di donargli ancora e completamente la mia vita, tutta, di unirla nell'obbedienza a quella del Suo Figlio che si occupa delle Sue cose.
Nulla osta: Cens. Eccl. Mons. Iginio Rogger, Trento, 15/1/84
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