Quando pregate...
“Quando pregate…”
40 passi per la preghiera “esaudita”
Il Signore farà tutto per me.
Signore, il tuo amore è per sempre:
non abbandonare l’opera delle tue mani. (Sal 138,8)
Introduzione
Spesso, soprattutto da persone in difficoltà o afflitte da profonde sofferenze, mi viene rivolta la richiesta: “Prega per me!”. Immancabilmente rispondo: “Si, pregherò per te”. Qualche volta mi sorge questo interrogativo: Che significa quel «prega per me» rivoltomi dalle persone più disparate, anche da quelle che, almeno apparentemente, non manifestano nemmeno un briciolo di fede? Di conseguenza mi chiedo pure: Che cosa significa «pregare»?
So che questa domanda se la pongono alcuni cristiani; provo perciò a esporre quelle risposte che, tenendo conto soprattutto degli insegnamenti e degli esempi di Gesù Cristo, mi vengono donate. Dico: “provo”, perché sono cosciente di essere incapace di pregare, e tanto più, perciò, di parlare agli altri della preghiera. Ho fiducia che il Signore stesso mi aiuterà a non dire nulla che possa “scandalizzarvi”, che possa, cioè, impedirvi di andare a lui e di arrivare al suo cuore. Ho questa fiducia perché egli di certo vi ascolta quando, insieme alla vostra vita e al vostro cammino di fede, gli affidate anche la mia persona per il compito che ora mi assumo nei vostri riguardi.
Signore, apri le mie labbra
e la mia bocca proclami la tua lode. (51,17)
Padre nostro
che sei nei cieli,
sia santificato il tuo nome,
venga il tuo regno,
sia fatta la tua volontà
come in cielo così in terra.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano
e rimetti a noi i nostri debiti
come noi li rimettiamo ai nostri debitori
e non abbandonarci alla tentazione,
ma liberaci dal male.
Signore, insegnaci a pregare
01
Vorrei cominciare con l’esaminare la parola «pregare». Gli evangelisti e gli apostoli, nella lingua usata per i loro scritti, e nuova per loro, il greco, avevano a disposizione la parola usata appunto dai greci, che erano pagani. Questi, infatti, si rivolgevano alle loro divinità con numerose richieste, e chiamavano questa attività «pregare» e «preghiera». Gesù però aveva detto con forza: “Pregando, non sprecate parole come i pagani” (Mt 6,7). Il termine usato dai pagani per esprimere il loro rapporto con le divinità non era quindi adatto per esprimere il rapporto dei cristiani con il loro Dio e Padre! Era necessario usare una parola nuova!
I cristiani che vogliono pregare, infatti, imparano da Gesù. I suoi discepoli, vedendo come egli pregava, si sono accorti di non essere capaci, nonostante avessero sempre pregato nella sinagoga e nelle loro liturgie familiari ebraiche. Vedendo pregare Gesù si sono resi conto che il suo modo di rapportarsi con Dio era diverso dal loro: essi dovevano imparare! Gli chiedono perciò: “Signore, insegnaci a pregare!” (Lc 11,1).
Quale era la novità che avevano percepito? In che cosa si distingueva la preghiera di Gesù dalla loro preghiera? Quale era la caratteristica della preghiera di Gesù, per cui la parola usata dai pagani per indicare il rapporto con la divinità non poteva andar bene per descrivere il suo pregare?
Gesù, pregando, non pensa a se stesso: egli pensa soltanto al Padre, ai suoi desideri, alla sua volontà, al suo amore misericordioso per tutti i popoli e per ogni singolo uomo. Gesù, pregando, è tutto proteso ad unirsi al Padre, per assumere il suo modo di guardare il mondo, per diventare un sol cuore con lui, per lasciarsi riempire da ciò che da lui procede come dono d’amore. Quando prega, Gesù non pensa alle proprie necessità materiali, ai propri presunti bisogni, e nemmeno a quelli degli altri. Egli sa che a Dio non sfugge nulla, e che, se noi facciamo la sua volontà, egli fa volgere tutto al bene, per noi e per gli altri. Egli sa che è il peccato dell’uomo, cioè la sua lontananza da Dio, che genera sofferenze e disordini, malesseri e malattie, e perciò concepisce la preghiera come strumento per conformarsi in tutto alla volontà del Padre, una volontà che può essere solo amore. Questa caratteristica della preghiera deve comparire anche nel termine usato per essa: i cristiani, perciò, nella lingua greca coniano una nuova parola; essa è composta dalla stessa parola usata dai pagani, ma vi aggiungono una particella. La particella usata lascia intendere che la preghiera non è un guardare a se stessi, bensì un protendersi verso Dio con tutto l’amore e tutto il desiderio di cui siamo capaci! Nella lingua italiana e nelle altre lingue occidentali non abbiamo una parola con questa importante sfumatura: non siamo riusciti a formarla; dobbiamo accontentarci di usare, per la preghiera, lo stesso termine usato dai pagani. É necessario però essere consapevoli del rischio che corriamo, di intendere cioè la preghiera e il pregare soltanto come richiesta di favori e benefici, richiesta di esaudimento dei nostri desideri.
Sette volte al giorno io ti lodo,
per i tuoi giusti giudizi. (119,164)
02
Il pregare di Gesù era nuovo per i discepoli. A lui interessava la gioia del Padre, ben conscio che anche per l’uomo non ci può essere gioia più grande che partecipare a quella di Dio. Egli era tutto proteso verso il Padre. Questo era naturale per lui, che non aveva il cuore rovinato dal peccato nè intriso di egoismo, come noi.
Prima di imparare il modo di pregare di Gesù ci è necessario «disimparare» tutti quei modi di pregare egocentrici che ci siamo costruiti. Sapendo che esiste un Dio, non ci siamo preoccupati anzitutto di conoscerlo e di amarlo, ma di sfruttarne le capacità di onnipotenza e onniscienza. Il nostro pregare, così, è diventato osservazione delle nostre necessità ed esigenze insoddisfatte, attenzione ai nostri gusti e desideri, tutto per attendere o pretendere da Dio soluzioni o appagamenti gratuiti o quasi. Siamo tentati di andare a lui con domande e richieste, e queste espresse con molti argomenti persuasivi, preoccupati di convincere Dio che deve intervenire per assecondare la nostra volontà. Gesù, iniziando la sua “lezione”, ci raccomanda anzitutto di disimparare alcuni modi di pregare cui il nostro istinto ci porta e a cui ci siamo abituati: “Pregando poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole” (Mt 6,7 ); “Quando pregate, non siate simili agli ipocriti che amano pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, per essere visti dagli uomini” (Mt 6,5). Dio guarda il cuore dell’uomo ed è capace di comprenderne i pensieri, anche se l’uomo non trova le parole adeguate per esprimerli. È il cuore, quindi, che deve presentarsi al cuore di Dio. Comprendiamo che è necessario imparare davvero a modellare il nostro cuore in modo che esso sia gradito al Padre, altrimenti come ci presenteremo a lui? Non mettiamo quindi il nostro impegno sulla formulazione delle parole nella nostra preghiera, come i pagani, ma sul modo di essere alla presenza di Dio. Come gli ipocriti, noi siamo spesso preoccupati di far bella figura davanti agli uomini, e siamo capaci di sfruttare per questo anche il nostro pregare!
Gesù invece vuole che la nostra preghiera sia vero incontro con Dio; essa, perciò, deve essere libera da preoccupazioni, che le imprimerebbero un tono di falsità. E la falsità davanti a Dio è un biglietto da visita piuttosto scadente, anzi, ripugnante!
O Dio, tu sei il mio Dio, dall’aurora io ti cerco,
ha sete di te l'anima mia, desidera te la mia carne
in terra arida, assetata, senz’acqua. (63,2)
03
Quando i discepoli si rivolsero a Gesù con la richiesta “insegnaci a pregare”, egli rispose subito. Sembra fosse stato in attesa di questa domanda! Sapeva che saper pregare è fondamentale per essere suoi discepoli. Egli ama il Padre e, naturalmente, vuole che essi lo amino come lo ama lui. Dio Padre è degno d’essere amato, degno d’essere ascoltato, degno di essere servito. E per l’uomo amare e ascoltare e servire Dio è vita, è pienezza, è gioia, è tutto! Per Gesù pregare significa essere tutto proteso verso il Padre per immedesimarsi in lui, per essere assorbito dalla sua luce, dalla sua volontà, dal suo amore. È perciò fondamentale che i suoi discepoli preghino, e preghino nel vero senso della parola, nel senso, cioè, che dà lui alla preghiera: che siano orientati con tutto il proprio essere verso il Padre, per essere trasformati dal suo amore, dal suo calore, dalla sua luce. Sembra che Gesù, quando prega, dimentichi se stesso, non si preoccupi di vedere necessità proprie, e nemmeno degli altri. Quando egli prega si preoccupa di vedere il Padre, di intuirne i desideri, di assumerne la volontà. Per questo egli dedica tanto tempo alla preghiera, anche di notte; e trascorre in essa giornate intere. Non saremmo ormai più capaci di ripetere quelle domande con cui ogni tanto abbiamo cercato di giustificare la nostra pigrizia: “A che serve pregare? Perché non preghi in casa tua piuttosto che andare in chiesa o in un luogo appartato? Invece che perder tempo a pregare, perché non ti occupi di chi soffre?”. Prova a rivolgere a Gesù queste domande! Forse ti risponderà… Il pregare deve servire per convertirti, per immedesimarti nel Padre, per cambiare i tuoi desideri, per accorgerti dell’incongruenza delle tue volontà, per trovare i motivi e la forza di amare gli uomini, per amare chi soffre in modo disinteressato e veramente gratuito. Il pregare, inteso non come domandare, ma come rivolgersi al Padre per essere assorbiti nel suo amore, è il movimento continuo del cuore che vuole camminare nella via della conversione e della santità!
Il Signore è vicino a chiunque lo invoca,
a quanti lo invocano con sincerità. …
Canti la mia bocca la lode del Signore
e benedica ogni vivente il suo santo nome,
in eterno e per sempre. (145,18.21)
04
San Luca ci racconta che i discepoli chiesero a Gesù di insegnar loro a pregare, con la motivazione che anche Giovanni Battista l’aveva insegnato ai suoi discepoli. Chissà quale era il motivo vero e profondo! Forse erano invidiosi? Forse volevano distinguersi dagli altri gruppi religiosi, dai discepoli di altri rabbi, ed usare per questo scopo la preghiera, facendone quasi un segno distintivo? Gesù dirà, nell’ultimo incontro con loro, quale dev’essere l’unico segno distintivo dei suoi discepoli: l’amarsi gli uni gli altri come lui li ha amati; per potervi riuscire l’unica condizione sarebbe che la loro preghiera sia come la sua, che il loro rapporto con Dio sia vissuto intensamente come lui l’ha vissuto. Se Gesù insegna a pregare, certo non lo fa perché i suoi possano vantarsi di essere diversi dagli altri, ma perché imparino ad essere diversi nel donarsi fiducia e obbedienza reciproca, nell’avere gli uni per gli altri quella cordialità, disponibilità e affabilità dalla quale risplende la luce del volto del Padre.
Imparare a pregare! I discepoli di Gesù erano Ebrei, e pregavano tutti i giorni. Già in famiglia avevano imparato a pregare, e la loro preghiera era seria: pregavano i salmi, le preghiere donate loro dallo Spirito di Dio e riportate dalla Bibbia. Eppure capiscono di dover imparare, capiscono di non essere capaci di avere con Dio quel rapporto che Gesù sta mostrando loro.
Gesù risponde alla loro domanda con insolita premura. Sembra che egli voglia insegnare le parole da usare nella preghiera, le parole da presentare al Padre per essergli graditi. Ma noi, che sappiamo quanto Gesù vuol essere vero, sappiamo che egli ci suggerisce di pronunciare quelle parole che esprimono un atteggiamento interiore, che esprimono la vita. A lui preme che la nostra vita maturi e cresca in modo da poter stare davvero a tu per tu con Dio Padre.
È bello rendere grazie al Signore
e cantare al tuo nome, o Altissimo,
annunciare al mattino il tuo amore,
la tua fedeltà lungo la notte. (92,2-3)
Quando pregate, dite
05
Gesù introduce la sua risposta alla domanda degli apostoli dicendo: “Quando pregate, dite…”. Ci soffermiamo su quel «quando». Quando è che i discepoli di Gesù pregano, quando devono pregare? Ci sono dei tempi particolari per la preghiera? C’è un numero di volte al mese o alla settimana o al giorno in cui è necessario pregare? Sembra che Gesù lasci tutto nel vago, o meglio, che lasci ogni decisione a loro. Certo, se il pregare è amare Dio e desiderare di essere trasformati in lui, la risposta a questi interrogativi dipende dall’amore, dal tipo di amore e dalla quantità di amore che gli riserviamo. Gesù aveva speso qualche parola per dire ai suoi la “necessità di pregare sempre senza stancarsi” (Lc 18,1) e anche per raccomandare “pregate e vegliate in ogni momento” (Lc 21,36). Che significa pregare “sempre”, e “in ogni momento”? Bisogna ripetere continuamente delle parole? Bisogna tenere la mente occupata costantemente con Dio? Non si può fare null’altro? Torniamo ancora al significato della preghiera: se essa è un protendersi verso il Padre per venire accolti nel suo essere amore, ciò può avvenire anche durante le occupazioni della giornata, quando la nostra mente e le nostre mani sono occupate da lavori, impegni, conversazioni. Pregare sempre è avere sempre vivo il desiderio di essere un tutt’uno con Dio per fare la sua volontà, per realizzare i suoi sogni, per contribuire alla sua opera di rappacificazione e di amore. Se questo desiderio è sempre vivo, non appena ci liberiamo dalle nostre occupazioni, corriamo col pensiero a lui, anzi, le occupazioni stesse le svolgiamo in modo da manifestare e realizzare già i suoi desideri e la sua volontà. In tal modo, quando parliamo con qualcuno, restiamo umili e miti, veri e seri, gioiosi e fiduciosi; quando lavoriamo siamo pazienti e calmi, svelti e sereni, responsabili e attenti; quando mangiamo siamo riconoscenti e sobri, attenti più a chi ci sta vicino che al piatto o al bicchiere; quando viaggiamo non facciamo nostra compagna di viaggio la fretta o la sbadataggine, nè la disubbidienza al codice della strada. Così il nostro Dio riceve buona testimonianza, proprio perché siamo desiderosi d’essere uniti a lui. Il nostro pregare pervade la vita! E non appena possiamo, ci soffermiamo a dialogare con lui, ad ascoltarlo, interrogarlo, a rispondere alle sue domande e richieste.
Perché mi dai gioia, Signore, con le tue meraviglie,
esulto per l’opera delle tue mani.
Come sono grandi le tue opere,
Signore, quanto profondi i tuoi pensieri! (92,5-6)
Padre
6
“Quando pregate, dite: Padre”. Chi ha mai pensato, seppure in sogno, di parlare così a Dio? L’uomo naturale, quello che non ha avuto una formazione cristiana, ha di Dio l’idea come di “qualcuno” tanto diverso da noi da non poter nemmeno immaginare di averlo così vicino e da potergli parlare con confidenza. Neppure gli Ebrei, pur sapendo che Dio si occupava del loro popolo per salvarlo, si sono mai permessi di rivolgersi a lui con parole che significhino un rapporto così stretto. Padre, Padre mio! Gesù vuol mettere sulla bocca dei suoi discepoli questo termine che egli stesso usa nella sua preghiera. Per pronunciarla in verità essi, nei riguardi di Dio, devono sentirsi figli, dipendenti in tutto da lui; devono essere coscienti di avere ricevuto da lui la vita, e di doverla ricevere continuamente da lui, giorno per giorno, anno per anno; deve nascere e crescere in loro riconoscenza e dipendenza, obbedienza e fiducia: «Se Dio è mio Padre, egli si sente responsabile della mia vita, e perciò tutto quello che egli permette è il meglio per me». Noi ci lamentiamo facilmente di quanto ci succede e talvolta arriviamo ad accusare Dio di distrazione o addirittura di cattiveria: dimentichiamo così che egli è amore, che egli è Padre, e che può trarre da un apparente male un gran bene per la nostra vita spirituale e per le persone che ci circondano: dimentichiamo che Dio è capace di vedere più lontano di noi, e che, quindi, non possiamo presumere di potergli insegnare qualcosa. Dato che Dio è Padre, e perciò responsabile della mia vita, vorrò scoprire i suoi progetti per collaborare con lui. Non può esserci significato più bello per la mia vita che contribuire a realizzare l’amore di Dio, e non ci sarà frutto più grande e utile delle mie fatiche che l’essere stato partecipe dell’opera del Padre. Quando comincio la preghiera dicendo “Padre”, il mio sguardo si solleva da tutto ciò che lo rattrista su questa terra. Qui ci sono i frutti del peccato, le sofferenze, i segni della morte, le gioie passeggere che alimentano illusioni e arrabbiature. Iniziando la preghiera esco da questo mondo o, meglio, apro una finestra che mi fa respirare un’aria fresca, nuova, ristoratrice; una finestra che allarga il mio orizzonte e mi permette di vedere la luce dell’amore vero e perfetto, e non solo di vederlo, anche di gustarlo e respirarlo nei miei polmoni!
O Signore, Signore nostro,
quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra!
Voglio innalzare sopra i cieli la tua magnificenza. (8,2)
07
Quando comincio la preghiera dicendo “Padre”, per quanto mi senta solo su questa terra, non lo sono più. Anche Gesù, mentre si vedeva abbandonato da quelli che parevano suoi seguaci fedeli e si accorgeva che nemmeno i suoi discepoli lo comprendevano, aveva detto: “Io non sono solo, perché il Padre è con me” (Gv 16,32). Quanto è bella la nostra fede, a differenza delle credenze di altre religioni che ti lasciano davvero solo! Le religioni orientali, ad esempio, vorrebbero farti credere e gioire di essere tu stesso una ‘scintilla’ di Dio, cioè un pezzetto di quella divinità che sarebbe tutto ciò che si vede! Dio non sarebbe quindi una persona, cioè un Qualcuno con cui entrare in relazione: ebbene, in tale credenza non ti viene dato modo di parlare con un Padre, non saresti ascoltato da nessuno; saresti davvero solo! Le religioni primitive, al contrario, ti convincono dell’esistenza di più divinità preposte alle varie fasi della tua vita o ai vari luoghi che frequenti; esse, però, sono capaci solo di farti paura o di soddisfare le tue voglie: con loro non ti senti in comunione, e nemmeno vorresti esserlo. La religione islamica ti fa ritenere che Dio è talmente lontano e talmente diverso, che non puoi pensare di rivolgergli una parola e tanto meno di riceverla da lui: egli rifiuta il titolo di padre con ciò che esso significa, come rifiuta che tu ti ritenga figlio per lui!
Dobbiamo essere davvero riconoscenti a Gesù, che ci svela un volto di Dio attento a noi, alla nostra vita e alla nostra gioia, impegnato a donarci segni della sua presenza amorosa accanto a noi. Anzi, ringraziamo Dio perché ci ha dato in Gesù stesso la concretezza del suo amore, la certezza della sua vicinanza. Gesù sostiene e rafforza tutte quelle certezze che ci vengono già dalla rivelazione fatta al popolo ebraico da Abramo a Mosè, da Davide a Elia, da Eliseo a Giovanni Battista! Tutti i racconti del popolo d’Israele e in particolare le sue preghiere, i salmi, sono una miniera di tesori che ci fanno percepire e gustare la presenza di quel Dio che è veramente a contatto con noi, perché la sua misericordia è vera e la sua fedeltà concreta. Guidati da Gesù diciamo, perciò: Padre! Possiamo trascorrere anche molto tempo della nostra preghiera dicendo semplicemente: “Padre”! Possiamo pensare che egli goda di quei sentimenti che sgorgheranno nel nostro cuore mentre pronunciamo questa parola con amore e desiderio di comunione.
Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita,
la luna e le stelle che tu hai fissato,
che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi,
il figlio dell’uomo, perché te ne curi? (8,4-5)
08
Quando cominciamo la preghiera dicendo “Padre” siamo costretti a impegnare anzitutto il nostro cuore. Questa parola ci aiuta a metterci in un atteggiamento che è al tempo stesso riconoscenza, umiltà, confidenza, amore, fiducia, piccolezza, fierezza… e molto altro ancora. È una Parola che ci cambia, che continua a convertirci, e allo stesso tempo ci fa esprimere questi sentimenti in modo che diventiamo testimoni, se qualcuno ci ascolta o ci vede mentre la pronunciamo. Gesù stesso usava questa parola per iniziare le sue preghiere: lo sappiamo da quelle poche volte che gli evangelisti ci riferiscono le parole con cui Gesù pregava; iniziava appunto dicendo “Padre”, anzi, addirittura “Abbà”, cioè Padre mio o Papà! Egli non aveva vergogna a lasciar vedere il suo amore tenero nei confronti di Dio e la confidenza, nonché una affettuosa piccolezza. Questo mettersi piccolo, come un bambino, davanti a Dio, lungi dall’essere per noi segno di meschinità o di bigottismo, ci fa sentire Gesù grande, di una grandezza che non ci fa soggezione, anzi, ce lo fa sentire vicino e partecipe dei nostri passi. Noi, che ci riteniamo grandi, facciamo fatica a imparare da lui, a iniziare la nostra preghiera con questo termine “Padre” o “papà”: l’orgoglio e il peccato, che si annidano dentro il nostro essere, ce lo vogliono impedire; temiamo che qualcuno possa vedere la nostra tenerezza e la nostra fiducia. Il pudore che ci fa evitare di manifestare tale confidenza, mostra il nostro orgoglio e la nostra vanagloria. Io ti consiglio invece di farlo: quando preghi, anche con i tuoi familiari, non aver paura a formulare una tua preghiera di lode o di adorazione, o anche di richiesta, chiamando Dio esplicitamente “Padre”. La tua preghiera sarà più bella, per te e per gli altri, ma soprattutto per il Padre stesso: sarà occasione di essere tu testimone della sua vicinanza, oltre che testimone del tuo amore per lui. E la preghiera sarà più vera, perché, per incontrare il Dio dell’amore, essa deve esprimere e manifestare amore!
Sì, riconosco che il Signore è grande,
il Signore nostro più di tutti gli dèi. (135,5)
Nostro
9
Gesù, insegnandoci a pregare, al nome «Padre» aggiunge subito l’aggettivo «nostro». Egli non vuole lasciarci nemmeno per un momento la sensazione di essere soli al mondo, nè di essere soli davanti a Dio. Questi è il creatore di tutti, perciò al suo cuore sono presenti tutti gli uomini. Come gli sono presenti? Anzitutto come sue creature! “Tu ami tutte le cose esistenti e nulla disprezzi di quanto hai creato” (Sir 11,24): così dice una preghiera di un libro della Bibbia. Dio ama le sue creature, sono opera delle sue mani. Dal momento, poi, che abbiamo accolto Gesù come Signore, il Padre ci ama addirittura come suoi figli: “A quanti però l'hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome” (Gv 1,12). Dicendo Padre nostro noi possiamo, perciò, o considerarci come rappresentanti di tutti gli uomini del mondo, o applicare quel nostro alla cerchia più ristretta dei membri battezzati della Chiesa. Nel primo caso la preghiera si rivolge a colui che ha creato tutti gli uomini e noi ci sentiamo fratelli di tutti, impegnati ad amare ogni persona che incontriamo senza chiederle quale religione professi. In questo modo condividiamo l’amore del Padre rivolto ad ogni creatura umana. Considerando quel nostro come riferito ai membri della Chiesa, vediamo l’amore del Padre per Gesù e per noi, in quanto membra del corpo di Cristo, inviati nel mondo ad essere testimoni del Figlio suo. Per noi è importante sentirci davanti a Dio rappresentanti di tutti gli uomini, anche di quelli che ancora non lo conoscono come Padre, che ancora non sanno di essere amati da lui. È ancor più importante che ci consideriamo figli di Dio in quanto membri della Chiesa: ci sentiamo così impegnati ad annunciare la sua paternità, offrendo a tutti gli uomini il nome di Gesù, il suo Figlio prediletto, perché lo invochino e siano salvati!
Ecco, com’è bello e com’è dolce
che i fratelli vivano insieme!
Perché là il Signore manda la benedizione,
la vita per sempre. (133,1.3)
Padre nostro
10
“Padre nostro”! Queste parole uniscono il cielo alla terra! Ci fanno alzare lo sguardo senza dimenticare la nostra condizione! Sono parole che influiscono sul nostro cuore e su quello di chi ci ascolta, ma, nello stesso tempo, esse devono produrre un influsso particolare anche sul cuore di Dio. Proviamo ad immaginarlo? Potrebbe esserci di aiuto per sostenere una più solida fiducia in lui e un amore più generoso. Sentendosi chiamare Padre nostro, egli è «costretto» a ricordare tutte le promesse consegnate alla lingua dei profeti e tutte le parole pronunciate da Gesù. Egli deve ricordare tutte le alleanze donate agli uomini da Noè in poi, ad Abramo, a Mosè, a Davide e, soprattutto, quell’alleanza nuova ed eterna stipulata con il sangue versato da Gesù sulla croce. Noi diciamo “Padre nostro”, ed egli, con un sussulto di commozione, ricorda le parole che Gesù ci ha detto e si sente impegnato a mantenerle: a rivolgere a noi quel suo sguardo cui non sfugge nè il passero nè il fiore sul bordo del campo, ad essere attento al nostro angelo che gli parla bene di noi, a manifestarci i suoi segreti, perché anche noi siamo piccoli e umili, ad essere misericordioso, tanto da beneficare allo stesso modo il pio e l’empio, il buono e il malvagio…
Dicendo Padre nostro, inoltre, noi pure siamo sollecitati e aiutati ad uscire dai moti dell’egoismo, sempre latenti, sempre vivi in ogni angolo del nostro essere. Siamo aiutati a superare quella gelosia che ha trovato il suo primo spazio nel cuore di Caino e che in esso si è sviluppata fino a giungere alla tragedia. Dato che il Padre è «nostro», ci gloriamo anche di ogni altro suo figlio e siamo contenti di sapere e di vedere che egli lo ama tanto quanto ama noi. Se facciamo venire dal cuore questa parola, «nostro», non troverà più spazio in noi l’invidia: quando vedremo che qualcuno sta meglio di noi, saremo contenti perché lo interpreteremo come un segno della benevolenza del Padre verso un fratello della nostra famiglia.
Ancora, dicendo «nostro», sapremo aprire lo sguardo ad ampi orizzonti: scruteremo lontano e ci accorgeremo della situazione di altri popoli e di altre genti, in modo da non considerarli estranei e da sentire il peso delle loro sofferenze e la bellezza della loro diversità.
Rallegra la vita del tuo servo,
perché a te, Signore, rivolgo l’anima mia. (86,4)
11
“Padre nostro”! Abbiamo ricordato che la parola “nostro” ci richiama anche il fatto che, in quanto battezzati, siamo figli di Dio, perché membra del Corpo dell’unigenito Figlio di Dio, appartenenti alla Chiesa di Gesù Cristo. Questa preghiera, infatti, ci viene consegnata dalla Chiesa al momento del battesimo e noi la preghiamo in comunione con tutta la comunità cristiana. Dicendo “Padre nostro” ci uniamo a tutti i credenti in Gesù, per riproporci di vivere la stessa missione di manifestare il volto di Dio, di realizzare il suo Regno, di continuare ciò che egli ha iniziato. Dio ci ama in modo particolare perché abbiamo accolto il Figlio suo, sua Parola, e sa di poter contare su di noi: sa che può chiederci di faticare con Gesù, e anche di soffrire e morire con lui. Noi, infatti, facendoci battezzare ci siamo immersi nella sua morte e non cerchiamo quindi da Dio particolari privilegi, nè situazioni di benessere e di comodità in questo mondo, anzi, siamo disponibili a seminare gesti e segni del suo amore anche quando questo ci costasse sofferenza. Possiamo pensare a quei nostri fratelli che devono affrontare ingiustizie da parte dei loro stessi parenti o colleghi di lavoro, oppure a causa delle leggi statali o della violenza di concittadini seguaci di altre religioni. Sono varie le situazioni in cui i cristiani soffrono in quanto credenti; molti di loro soffrono senza lamentarsi, sapendo che la loro pazienza è testimonianza del Regno di Dio e di Gesù Cristo. Essi partecipano alla croce del Signore sotto lo sguardo del Padre, e patiscono a nome di tutti i loro fratelli. Noi siamo loro riconoscenti e, conoscendo la loro passione, riceviamo forza per resistere a nostra volta alle pressioni del mondo e alle tentazioni del maligno. Non ci lamentiamo, piuttosto ci prepariamo ad offrire il nostro sforzo come preghiera che dà valore e consistenza alle parole che stiamo recitando senza fatica.
Tutti insieme, come Corpo di Cristo, noi abbiamo un Padre, e questo ci dà anche la gioia di poterci comunicare gli uni gli altri le esperienze che facciamo della paternità di un Dio così vicino, così attento, così previdente e provvidente.
Il tuo nome voglio far ricordare per tutte le generazioni;
così i popoli ti loderanno in eterno, per sempre. (45,18)
che sei nei cieli
12
“Padre nostro che sei nei cieli”: siamo ormai abituati a questa espressione, tanto che essa sembra non produrre nulla di nuovo dentro di noi. Pensando ai cieli, a cosa pensi? Pensi all’azzurro di un cielo soleggiato, o al grigiore delle nuvole, o al buio luminoso di un cielo stellato? Che Dio sia proprio lassù? I bambini fanno tante domande… e noi cosa rispondiamo alle nostre? A che cosa vuol farci pensare il linguaggio biblico usato da Gesù? Il cielo è certamente quanto di più irraggiungibile e nascosto possa esserci. Dio infatti nessuno l’ha mai visto nè lo può vedere. Il cielo non può esser penetrato dallo sguardo nè toccato dalle mani, nè raggiunto dalle capacità dell’uomo per quanto potenti esse siano. Il Padre, che ci ama, ci osserva e ci custodisce, ma da noi non può essere raggiunto: noi non lo possiamo controllare nè influenzare né possiamo dargli ordini. Proprio per questo il suo amore per noi è bello e meraviglioso, perché non ha la sua origine in noi, ma nel suo cuore. E se noi siamo peccatori? E se ci scopriamo al di fuori dei suoi desideri e incapaci di eseguire la sua volontà? Dato che il suo amore ha origine nel suo cuore e non nel nostro comportamento, non possiamo mai disperare. Può succedere che qualche persona si trovi in situazioni così ingarbugliate, anche a causa dei propri peccati e disordini, da non poter fare a meno di disperarsi. Ebbene, sapendo che l’amore del Padre è sempre vivo e fedele, benché la sua situazione non possa essere rifatta e i suoi problemi risolti, egli può confidare ancora e vivere nella speranza.
Il nostro Padre è nei cieli: è nascosto, noi non lo vediamo, benché egli ci veda continuamente e segua con interesse il nostro cammino. Se il Padre è nascosto, è nascosto anche il suo amore. Viviamo molte vicende che a noi sembrano prive dell’amore di Dio: non è così, semplicemente il suo amore è nascosto. Se ci ricordiamo della vicenda di Giuseppe, il figlio di Giacobbe venduto dai suoi fratelli, oppure di quella di Daniele e di molti altri personaggi biblici, vediamo che dentro le angosciose vicende da essi vissute era operante davvero l’amore del Padre, un amore più grande e più previdente di quello che noi tutti insieme possiamo esser capaci di immaginare. Ciascuno di noi può verificare anche nella propria storia come l’amore del Padre si sia nascosto in qualche vicenda difficile e dolorosa.
Perché le genti dovrebbero dire:
«Dov’è il loro Dio?».
l nostro Dio è nei cieli:
tutto ciò che vuole, egli lo compie. (115,2-3)
13
“Che sei nei cieli”: Il nostro Padre è nei cieli: nei cieli non regna il male, non vi penetra, non riesce a rimanervi. Dai cieli infatti è stato scacciato Lucifero con i suoi seguaci. Questi è venuto sulla terra a combinare i suoi guai, a sedurre gli uomini, a cercare di attirarli nel suo odio contro Dio e nella sua volontà di dominare fino a privare della pace e della vita coloro che si alleano con lui e coloro che si allontanano dal Padre. Nei “cieli” regna solo il Padre con il suo amore e la sua volontà di vita, di pace, di comunione.
Dicendo che il Padre è nei cieli affermiamo anche la sua distinzione dal creato e dalle creature. È importante, proprio ai nostri tempi, avere chiarezza su questo punto: ne ho già accennato, ma penso sia utile ripeterlo. Si sta diffondendo infatti, creando gravi squilibri nello spirito di chi vi aderisce, il modo di pensare tipico delle religioni orientali. Queste, che non godono della rivelazione di un Dio «persona», ritengono che il creato stesso sia divino. Per queste credenze Dio non sarebbe che il substrato di tutto quel che si vede e si tocca. Tutta la terra e tutto ciò che è sulla terra sarebbe divino. Ogni cosa sarebbe una parte di Dio! Anche l’uomo sarebbe divino, benché la sua divinità sia ancora nascosta. Egli deve trovare i modi per ricuperarla e manifestarla attraverso la conoscenza, la forza, i poteri della mente, gli esercizi del corpo e della psiche. Noi intuiamo che un tal modo di pensare e di agire ci inganna, ma non tutti sono pronti a individuarne la menzogna. Benché apparentemente innocua e affascinante, questa credenza getterebbe l’uomo in una profonda solitudine, impedendogli di entrare in comunione con gli altri e soprattutto con un Dio che ci ama, ci parla e ci ascolta e ci perdona. Dicendo, quindi, “che sei nei cieli”, noi affermiamo la certezza che viene dalla nostra fede, che Dio è Qualcuno, diverso da noi, diverso dal creato, superiore a tutto e a tutti. La superiorità di Dio non ci permette di dubitare di lui, semmai dubitiamo di noi, della nostra intelligenza, del nostro sentire, del nostro pensare. Se dubitassimo di Dio e del suo amore di Padre, saremmo in balia delle nostre incertezze, ognuno delle proprie, lontani dalla verità, ingannati dalla propria piccolezza e fragilità. Diciamo con gioia quindi: “Padre nostro, che sei nei cieli”, siamo sicuri di te, di te siamo fieri!
I loro idoli sono argento e oro,
opera delle mani dell’uomo.
Hanno bocca e non parlano,
hanno occhi e non vedono. (115,4-5)
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“Che sei nei cieli”: San Paolo scrive che egli “ci ha fatti sedere nei cieli” (Ef 2,6). Noi, quindi, guardiamo i cieli non come un territorio estraneo, ma come un Traguardo che ci appartiene già. In essi è già presente, infatti, Gesù, il Capo del Corpo di cui noi siamo le membra, la Chiesa. Dicendo “che sei nei cieli” affermiamo che là il Padre ci sta aspettando, là ci apre le sue braccia per accoglierci quando saremo uniti pienamente e per sempre al Figlio suo. Quei cieli sono stati aperti sopra Gesù nel Giordano, sono rimasti aperti fin quando egli vi è tornato, sono ancora aperti per accogliere coloro che muoiono in lui. In quei cieli Gesù stesso ha visto Abramo con il povero Lazzaro: luogo di consolazione e di gioia eterna per coloro che, soffrendo sulla terra, sono rimasti fedeli a Dio. Nei cieli il martire Stefano ha contemplato il Figlio dell’uomo in piedi alla destra del Padre (At 7,56), e nei cieli Giovanni ha visto un segno grandioso, la donna vestita di sole con la luna sotto i piedi e una corona di dodici stelle (Ap 12,1)! Ancora, Giovanni vide scendere dai cieli la città santa, risplendente della gloria di Dio (Ap 21,10).
Dio non è nei cieli per vivere una sua solitudine o una distanza da noi e da tutta l’umanità, anzi, sembra che essere nei cieli significhi, per lui, la possibilità di abbracciare tutti. Dai cieli il Padre si china, dice un salmo, per vedere se sulla terra c’è un uomo che cerchi Dio (Sal 14,2)! Noi non lo vediamo, ma egli ci segue con il suo sguardo attento e desidera incrociare il nostro, perché noi ci accorgiamo del suo amore. Che il suo essere nei cieli non significhi una sua distanza da noi lo affermano anche le preghiere bibliche che recitano: egli ha fatto della terra lo sgabello per i suoi piedi! Il «luogo» dove Dio si nasconde avvolge, quindi, la terra. Su di essa noi ci muoviamo: dovremmo muoverci con cautela, con attenzione, con spirito di adorazione, perché, ovunque siamo, potremmo calpestare il luogo su cui Dio poggia il suo «piede». Ogni angolo della terra, quindi, è per noi luogo di venerazione e adorazione. Cieli e terra davvero s’incontrano e si abbracciano, grazie a questa presenza del «piede» di Dio. È un modo di dire, ovviamente, ma che ci aiuta a comprendere come il timor di Dio ci debba possedere sempre e ovunque. Non ci sono luoghi sacri e luoghi profani, dal momento che Dio, nostro Padre, è nei cieli adoperando la terra come sgabello dei suoi piedi (Sal 99,5)!
Guardate a lui e sarete raggianti,
i vostri volti non dovranno arrossire. (34,6)
Sia santificato il tuo nome
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“Sia santificato il tuo nome”. Proseguendo la preghiera continuiamo a fissare il nostro sguardo sul Padre per incontrare il suo: coglieremo i desideri più profondi del suo cuore. A Gesù, infatti, ciò preme molto, più ancora del nostro essere capaci di pensare alle nostre necessità. Egli sa che l’essere attenti alle nostre preoccupazioni non ci giova, non ci cambia, non ci migliora. Guardiamo cosa preme al nostro Padre, facciamo nostri i suoi pensieri, e gli assomiglieremo! Leggendo le Scritture scopriamo che uno dei desideri più forti di Dio è la santificazione del suo nome. Non è un desiderio egoistico di Dio, anzi, è il modo con cui egli vuole beneficarci in profondità. Infatti, ascoltando il profeta Ezechiele, veniamo a sapere che Dio santifica il suo nome in questo modo: raduna i suoi figli, li purifica e quindi dona loro un cuore nuovo, uno spirito nuovo! La santificazione del nome di Dio è un’espressione che riassume una serie di benefici a nostro favore. Dio si fa conoscere a tutto il mondo e la sua gloria risplende attraverso quanto riesce a compiere con noi. Egli un tempo vedeva il suo popolo disperso tra molti popoli, dopo la deportazione a Babilonia, oggi vede noi soffrire di solitudine, ci vede più che mai deboli nelle tentazioni con cui il mondo ci seduce e ci inganna. Sa che il nostro cuore si è lasciato corrompere da molti idoli del mondo contemporaneo e perciò ci vede estremamente bisognosi di purificazione: l’idolatria del benessere, del piacere e dei presunti diritti ci fa perdere di vista il valore della croce e ci impedisce di guardare al Padre come a un vero papà. Egli stesso troverà i modi di togliere dal nostro cuore la menzogna dei falsi dei. Adopererà il rimprovero? Dovrà ricorrere a farci sperimentare il dolore e la sofferenza della malattia, del lutto, della persecuzione? Il suo amore per noi arriverà con l’attenzione del medico che, pur di guarire, porge medicine amare, o come il chirurgo che amputa una delle membra pur di salvare la vita al paziente? Il nostro Padre, poi, vuole renderci partecipi della sua vita donandoci il suo santo Spirito: ci raduna e ci purifica per averci come suoi figli, per godere la nostra vicinanza e perché la nostra vita diventi piena e perfetta, piena del suo stesso amore e perfetta della sua misericordia.
Non a noi, Signore, non a noi,
ma al tuo nome da’ gloria,
per il tuo amore, per la tua fedeltà. (115,1)
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“Sia santificato il tuo nome”. Pronunciando queste parole ci chiediamo cosa significhi «santificare» e quale sia il «nome» di Dio, del nostro Padre. Col termine «santificare» s’intende il destinare a Dio, il solo santo, una cosa o una persona. “Io santifico me stesso” (Gv 17,19) aveva detto Gesù nella sua preghiera durante l’ultima Cena. Egli voleva offrirsi del tutto al Padre, con un’obbedienza senza limiti. Il “nome” del Padre quale potrà essere? Sappiamo che il sommo sacerdote del tempio di Gerusalemme pronunciava il nome di Dio mentre nessun uomo lo udiva, nel segreto del Santo dei Santi, e soltanto una volta all’anno. Qual è il nome di Dio? Il «nome» è una parola con cui identifichiamo qualcosa o qualcuno. Può il nostro Dio e Padre essere identificato semplicemente con una parola umana pronunciata dalla nostra bocca? Dio ha pensato di farsi conoscere da noi non tramite delle parole, ma tramite la persona di Gesù. Questi ha vissuto la pienezza dell’amore divino, la pienezza della misericordia e del perdono, e perciò Dio si fa conoscere attraverso di lui. Per questo San Paolo, parlando di Dio, si esprime spesso così: “Dio e Padre del nostro Signore Gesù Cristo” (2Cor 11,31; 1Pt 1,3). Il vero nome del Padre è il volto di Gesù: è attraverso di lui, il Figlio, che conosciamo il Padre e lo possiamo incontrare. Dicendo: “Sia santificato il tuo nome” noi esprimiamo il desiderio che Gesù sia da tutti riconosciuto come colui che ci indica il vero volto di Dio, secondo la sua stessa rivelazione: “Chi vede me vede il Padre” (Gv 12,45). Con questa preghiera ci uniamo al desiderio che Gesù stesso ha espresso in pubblico dopo aver annunciato la propria morte: “Per questo sono giunto a quest'ora! Padre, glorifica il tuo Nome" (Gv 12,27-28). Il Padre esaudirà questa preghiera e glorificherà il suo Nome accogliendo l’offerta di sè del Figlio per la salvezza degli uomini. Quando noi diciamo “Sia santificato il tuo nome” ci uniamo a questo desiderio di Gesù, desiderio già da lui realizzato!
Dal sorgere del sole al suo tramonto
sia lodato il nome del Signore.
Su tutte le genti eccelso è il Signore,
più alta dei cieli è la sua gloria. (113,3-4)
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“Non a noi, Signore, non a noi, ma al tuo nome da’ gloria” (Sal 115,1)! Così ci fa pregare un salmo. Volendo santificare il nome di Dio Padre noi rinunciamo a cercare gloria per noi stessi. Questa è una tentazione sempre in agguato, spesso senza che nemmeno ce ne accorgiamo. Cercando la nostra gloria ci troveremmo nella situazione, molto pericolosa, di non accorgerci dell’orgoglio, della menzogna, e nemmeno del disprezzo degli altri che può essere presente in noi. Quando il nostro desiderio è dar gloria soltanto a Dio, invece, riusciamo a rimanere nell’umiltà, nell’apprezzamento di ogni altra persona e nella ricerca autentica della verità.
“Sia santificato il tuo nome”, continuiamo a dire con gioia! La volontà di Dio di santificare il proprio nome non è, da parte di lui, che è solo amore, un atto di egoismo, anzi: egli sa che questo è l’unico modo in cui egli può aiutarci a rimanere saldi nell’amore vero, a crescere in esso, a vincere gli impulsi dell’orgoglio e della superbia. Chi si impegna a dar gloria al nome di Dio supera le limitazioni imposte dal proprio io, riesce quindi a perdonare, a far risplendere l’amore anche in quelle situazioni in cui di solito verrebbe da reagire con l’ira o con il disprezzo.
Puoi provare anche tu a desiderare con tutto il cuore che il nome di Dio sia glorificato. Terrai questo desiderio come criterio nei tuoi rapporti con il prossimo. Allora riuscirai a comprendere le reazioni di chi incontri, a non dar loro peso, a rimanerne libero, a continuare ad amare; saprai sopportare chi non ti parla che di se stesso, chi non sa far altro che criticare, chi grida e ti insulta, chi fa discorsi inutili o persino dannosi, chi ha atteggiamenti antipatici o scostanti, chi riesce a danneggiarti nel tuo posto di lavoro, persino chi ti calunnia. In queste e altre simili circostanze, se cerchi la gloria di Dio, non ti preoccuperai del tuo buon nome, né della tua fatica, nemmeno del tuo interesse. Soffrirai, ma nella pace, e soffrirai soprattutto perché, in quelle circostanze, vedi che manca la pace al tuo interlocutore; non rimarrai offeso, sarai invece disponibile ad incontrare ancora con amore quella persona, che hai sentito bisognosa di attenzione e di comprensione, bisognosa di amore e di educazione. “Sia santificato il tuo nome”!
L’anima nostra attende il Signore:
egli è nostro aiuto e nostro scudo.
È in lui che gioisce il nostro cuore,
nel suo santo nome noi confidiamo. (33,20-21)
Venga il tuo Regno
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“Venga il tuo Regno”. Nei disegni di Dio non è mai stata considerata la possibilità che un uomo ponga se stesso come re al di sopra degli altri uomini. Egli ha creato gli uomini capaci di amare, capaci di essere fratelli l’uno per l’altro. Il peccato ha sconvolto le intenzioni di Dio: la vicenda di Caino e Abele ne è la dimostrazione, e quanto è avvenuto durante la costruzione della torre di Babele ne è il frutto. Dio avrebbe voluto risparmiare, almeno al suo popolo, le ingiustizie e le sofferenze che derivano dalle discordie generate dall’invidia e dal conseguente dominio dell’uomo sull’uomo. Quando gli Israeliti chiesero a Samuele di poter avere un re, come gli altri popoli, il profeta li mise in guardia: il loro desiderio aveva origine dall’ambizione umana, non dal cuore di Dio. L’uomo, qualsiasi uomo, benché scelto per essere re, non è immune dall’egoismo, dall’avidità, dall’ambizione, dalla sete di gloria e di potere; avere un re sarebbe stato fonte di molte e prolungate sofferenze per tutti. Gli Israeliti se ne dovettero rendere conto ben presto! Al nostro tempo noi pure abbiamo sperimentato e sperimentiamo le conseguenze dell’aver consegnato agli uomini il potere sul popolo o sui popoli. La storia del mondo intero è la narrazione delle sofferenze causate dalla volontà di dominio dell’uno sull’altro, è storia di guerre tra regni umani.
Quando Gesù ci ha insegnato a pregare, ha inserito nella preghiera il desiderio profondo, e spesso inconscio, di tutti noi. Dobbiamo ritornare all’intenzione originaria del Padre, quella che ci vede fratelli, e soltanto fratelli, gli uni degli altri. Ciò sarà possibile soltanto se gli uomini potenti rinunceranno ad esercitare il potere sugli altri, e gli uomini deboli a demandare la propria responsabilità ad un altro uomo, per ubbidire, nella libertà, soltanto a Dio. Gesù ci mette nel cuore il desiderio che sia Dio a regnare: “Venga il tuo regno!”. Siamo davvero stanchi di considerarci sudditi di persone che sfruttano, che non sanno fare altro che accontentare l’avidità di denaro dei ricchi, che non cercano altro che arricchire se stessi ignorando i comandi di Dio. “Venga il tuo regno!”. Dicendo così affermiamo che Dio solo è degno di essere ubbidito, Dio solo può ‘comandare’, perché solo il suo ‘comando’ non si distingue dall’amore.
Gioiscano le nazioni e si rallegrino,
perché tu giudichi i popoli con rettitudine,
governi le nazioni sulla terra. (67,5)
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“Venga il tuo regno”. Noi ci illudiamo facilmente. Quando sono in ballo votazioni ed elezioni di uomini che ci governino democraticamente, noi ci illudiamo. Ogni volta preghiamo per coloro che votano e per coloro che vengono eletti: la preghiera vera, però, è sempre questa: “Venga il tuo regno”. Gli uomini al governo, anche in clima di democrazia, sono tentati di ignorare i comandamenti di Dio, o di interpretarli in modo da sentirsi padroni assoluti del mondo e delle sue leggi. Non ci meravigliamo di questo, perché conosciamo le debolezze dell’uomo, ma non lo possiamo nè approvare nè accettare. Non ci illudiamo, perciò, al cambiamento di un parlamento o di un governo: cambiano i nomi, ma non cambia il cuore di chi starà sulla sedia del comando. Questi sarà tentato di eludere i comandi di Dio Padre, comandi da lui datici per il nostro bene, per favorire una serena convivenza, anche a lunga durata: Dio, infatti, vede le conseguenze del male, quelle conseguenze che noi non vogliamo o non siamo capaci di vedere, le vede a lungo termine. Ce le vorrebbe risparmiare, ma gli uomini che comandano cercano di prendere il suo posto, e di fatto lo prendono. Noi continuiamo, perciò, a pregare: “Venga il tuo regno”. È come dicessimo: «Padre, vogliamo ubbidire a te, vogliamo che ci comandi tu! Sappiamo che tu ci ami e che di amore sono intrisi tutti i tuoi comandi. Ubbidire a te è salute, è pace, è serenità, è benessere e gioia».
Ogni regno comincia quando si presenta il re. Chi è il re del regno del Padre? Non può essere che il Figlio suo! Per questo Gesù diceva, all’inizio della sua predicazione: “Il regno dei cieli è vicino” (Mt 4,17)! Quando si avvicina Gesù, si avvicina il regno del Padre, quel regno dove noi siamo fratelli gli uni degli altri, dove cioè siamo amati da tutti e possiamo donare amore a tutti. Dicendo “Venga il tuo regno” è come dicessimo a Gesù che lo aspettiamo, che lo vogliamo, che siamo contenti della sua presenza. Egli è venuto addirittura dalla stirpe di David, stirpe regale! Perché il suo popolo lo potesse accogliere come vero re umano, Dio lo ha mandato come Figlio di Davide! Proprio come vero re Gesù ha voluto essere riconosciuto: com’era diritto di un re terreno ha voluto il puledro su cui nessuno era ancora salito, ma come re mandato da Dio ha voluto che il puledro fosse d’asina, l’animale dei servi, che porta chi compie un lavoro, chi compie la fatica di un servizio utile agli altri.
Egli mi ha detto: «Tu sei mio figlio,
io oggi ti ho generato.
Chiedimi e ti darò in eredità le genti
e in tuo dominio le terre più lontane. (2,7-8)
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“Venga il tuo regno”. Quando preghiamo così, diciamo al Padre che desideriamo Gesù, l’uomo che egli ha mandato nel mondo e a cui ha consegnato ogni potere, ogni potere d’amore! Gesù è già venuto, ha già iniziato a regnare nel mondo, e molti lo hanno accolto come re. Chi compie questo passo, può farlo solo per se stesso, non per gli altri! Gesù stesso cercò di far comprendere questo persino a Pilato, mentre questi rifletteva sul titolo regale per cui Gesù veniva accusato dai Giudei. Gli disse: “Lo dici da te o altri ti hanno parlato di me?” (Gv 18,34). Il Regno del Padre è là dove Gesù viene ubbidito: è, quindi, tra i discepoli, è la Chiesa. Dobbiamo anche notare che ci sono persone estranee alla Chiesa che ubbidiscono a Gesù e, purtroppo, persone che fanno parte della Chiesa che gli disubbidiscono e sono di scandalo a molti. Non possiamo perciò affermare che il regno del Padre coincide con la Chiesa. Vorremmo tuttavia poter dire che la Chiesa è regno di Dio, e che ne è l’espressione visibile più sicura. Anche per questo noi ci impegniamo a vivere uniti a Gesù, perché la Chiesa, di cui siamo membra, sia davvero regno di Dio! Gesù aveva pure promesso ai suoi discepoli che avrebbe preparato per loro dodici troni, perché essi potessero regnare con lui. Regnare con lui è certamente possibile, ma passando attraverso la croce: ai due fratelli che chiedevano di poter sedere alla sua destra e alla sua sinistra nel suo regno, Gesù chiese anzitutto se potevano bere al suo calice! Per questo anche San Paolo scrisse: “Se con lui perseveriamo, con lui anche regneremo” (2Tim 2,12)! Dicendo “Venga il tuo Regno” noi ci disponiamo dunque a percorrere con Gesù la via del Calvario, a portare con lui la croce, a offrire noi stessi al Padre come membra del corpo di Cristo. La perfezione del Regno del Padre e il suo avvento completo lo vedremo alla fine, quando saremo riuniti con lui nella gloria. Allora acclameremo con tutti i testimoni e con tutti i redenti: «Ora si è compiuta la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio e la potenza del suo Cristo, poiché è stato precipitato l'accusatore dei nostri fratelli, colui che li accusava davanti al nostro Dio giorno e notte” (Ap 12,10). Il regno sarà pienamente realizzato quando l’avversario sarà reso impotente e non potrà più accusare nessuno, perché tutti ci saremo affidati e aggrappati al Salvatore unico del mondo!
Il Signore regna: esulti la terra,
gioiscano le isole tutte.
Nubi e tenebre lo avvolgono,
giustizia e diritto sostengono il suo trono. (97,1-2)
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“Venga il tuo regno”. Con queste parole riviviamo la gioia di Gesù che annunciava con sicurezza: “Il regno di Dio è vicino” (Lc 21,31). Gesù sapeva di essere egli stesso il Re del regno: lo sapeva anche sua madre, Maria, da quando glielo aveva rivelato l’angelo. Gesù lo sapeva anche grazie ai molti salmi che attribuiscono questo titolo direttamente a Dio, ma anche al suo inviato, generato “oggi” quale Figlio cui vengono assegnate “in dominio le terre più lontane” (Sal 2,8). Egli è un re cui tutti servono con gioia: “Servite il Signore nella gioia, presentatevi a lui con esultanza” (Sal 100,2). Nessuna paura, nessun timore davanti alla regalità di Dio, e nemmeno, quindi, alla regalità del Figlio. Egli è un re buono, un re “che ama il diritto e la giustizia”, un re molto desiderabile! Ubbidire a lui è meglio che fare la propria volontà. Ubbidire a lui significa garantirsi un futuro sicuro, l’armonia con tutti, la pace tra popoli diversi. Il suo regno non ha confini, non è limitato dalle culture o dalle lingue, nemmeno dalla geografia o dalle distanze. Il suo regno attraversa tutti i regni umani. Anche San Paolo, giunto a Efeso, nella sinagoga cercava “di persuadere gli ascoltatori di ciò che riguarda il regno di Dio” (At 19,8). Questo modo di definire la presenza dell’amore del Padre tra gli uomini è un modo compreso da tutte le culture in tutto il mondo. In tutto il mondo, infatti, è compresa la lingua dell’amore, vera “nuova” lingua data dallo Spirito Santo ai credenti in Gesù. È perché è già in atto questo regno, infatti, che molte persone raggiungono altri popoli per soccorrere i loro infermi, per aiutarli nella ricerca del cibo e dell’acqua, per difenderli dai soprusi delle società multinazionali. È grazie a questo Regno, già instaurato da duemila anni, che dai nostri portafogli possono staccarsi in molti modi degli aiuti per i popoli poveri del mondo o per quelli colpiti da calamità naturali, terremoti o alluvioni, cicloni o disastri ambientali, o per quelli che i regni degli uomini hanno impoverito e danneggiato materialmente e psicologicamente. Continuiamo a pregare: Venga il tuo Regno, offrendo la nostra disponibilità generosa a collaborare perché l’amore del Padre raggiunga ogni persona dimenticata da chi si mette alla guida di un pezzetto del nostro pianeta.
O Dio, mio re, voglio esaltarti
e benedire il tuo nome in eterno e per sempre. (145,1)
Sia fatta la tua volontà
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“Sia fatta la tua volontà”. Come è bella la volontà del Padre! Egli, che conosce soltanto l’amore, vuole solo il bene e il meglio del bene per tutte le sue creature. Egli sa pensare solo il bene. Noi perciò, già chiamandolo Padre, ci affidiamo con serenità e fiducia, con gioia e pace, alla sua volontà. Nella preghiera esprimiamo il forte o incrollabile desiderio che la sua volontà prevalga sulla nostra. Anche noi abbiamo una volontà, ma sappiamo in partenza che essa è condizionata moltissimo dall’egoismo nostro e da quello delle persone che amiamo. La nostra volontà prende le mosse dai nostri desideri materiali, che spesso sono l’inizio di ambizioni, di concupiscenze della carne, di ricerca del potere e portano ai vizi e al peccato. Il Padre vuole certamente difenderci da questi pericoli, oppure liberarcene, se vi fossimo già caduti o fossimo già ad essi orientati. Per questo spesso noi troviamo una discrepanza tra la nostra volontà e quella che man mano Dio ci manifesta. Diciamo perciò con sempre maggior convinzione e sicurezza: “Sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra”. Gesù ci ha insegnato, non solo con le parole, ma soprattutto con l’esempio, come sia importante accogliere la volontà del Padre, quando, nell’Orto degli Ulivi, in preda all’angoscia mortale, disse: “Padre, non la mia, ma la tua volontà si faccia” (Lc 22,42). Egli non era nè affetto da egoismo nè caduto nel peccato, ciò nonostante ha sentito la fatica ad accogliere la volontà del Padre, quella volontà che avrebbe portato lui alla gloria e il mondo alla salvezza: su di lui pesavano le conseguenze del peccato di tutti gli uomini, con cui volle essere solidale. Anche noi facciamo grande fatica ad accogliere la volontà del Padre, non solo a causa delle nostre inclinazioni egoistiche, ma anche perché su di noi pesa l’influsso del peccato che ci ha preceduto e ci circonda, oltre a quello delle nostre personali disobbedienze. Continuiamo comunque, con fede, a dire: “Sia fatta la tua volontà”, per unirci a Gesù nel suo amore perfetto al Padre, e per essere da lui salvati dal contribuire ad allontanare l’umanità dai progetti di Dio.
Aspetto da te la salvezza, Signore,
e metto in pratica i tuoi comandi.
Io osservo i tuoi insegnamenti
e li amo intensamente. (119,166-167)
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“Sia fatta la tua volontà”. Gesù ha detto ai suoi che li chiama amici perché manifesta loro quanto egli ha udito dal Padre! I disegni e la volontà di Dio, quindi, non sono qualcosa di misterioso, di impossibile da conoscere, anzi, dato che egli è nostro Padre e noi siamo suoi figli, abbiamo la gioia di poterne ricevere la rivelazione. La preghiera che oggi esaminiamo è, infatti, desiderio di conoscere le intenzioni del Padre: desideriamo conoscerle perché vogliamo impegnarci con tutte le nostre possibilità, la nostra fatica e la nostra fantasia per la loro realizzazione. Vogliamo fare nostra la volontà del nostro Padre, e fare nostri anche i modi di concretizzarne i disegni. Come facciamo a conoscere ciò che vuole il nostro Dio? Gran parte dei suoi desideri sono già da noi conosciuti tramite le Sacre Scritture, che ci riportano i suoi comandamenti. Altri segni della volontà di Dio li riceviamo dai suoi “apostoli”, che sono stati mandati da Gesù che disse: “Chi ascolta voi ascolta me” (Lc 10,16). Dopo di loro e come loro ci aiutano i vescovi, loro successori. E poi le circostanze della vita di giorno in giorno ci mettono nella condizione di dover operare delle scelte: queste le prendiamo sulla base di principi che ci siamo abituati a coltivare e radicare in noi con umiltà e serenità rivisitando la Parola di Dio e la storia della salvezza. Gran parte delle scelte quotidiane sono conseguenza di altre scelte principali, quali quelle dello stato di vita, del lavoro, degli altri impegni comunitari civili o ecclesiali. Chi ha scelto il matrimonio dovrà sempre tener presente il suo legame d’amore, per salvarlo da tentazioni, accrescerlo e approfondirlo. Di fronte a proposte degli amici e colleghi o di altre persone terrà sempre presenti le necessità e i desideri del proprio coniuge per dare ad essi la priorità. Chi si fosse impegnato in un’associazione o in un gruppo di volontariato sa che volontà di Dio è essere fedele agli impegni assunti. L’amore, infatti, è fedele, come pure misericordioso, benevolo e umile. Le qualità dell’amore di Dio sono altrettante indicazioni di come Dio vuole che noi realizziamo i singoli atti di ubbidienza a lui.
Ecco, come gli occhi dei servi
alla mano dei loro padroni, …
così i nostri occhi al Signore nostro Dio. (123,2)
come in cielo così in terra
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Sia fatta la tua volontà! Terremo sempre vivo il desiderio di compiere, e prima ancora di conoscere, la volontà del Padre. Sappiamo che egli non ci vuole mai costringere a fare qualcosa, perché i suoi figli li vuole liberi. Come un vero papà egli ci tiene che i figli diventino uomini, maturi, capaci di scelte responsabili: per questo non ci costringe, e rispetta la nostra libertà anche a rischio che ci facciamo del male. Saremo noi, dunque, a dirgli con insistenza: facci conoscere i tuoi desideri, o Padre, perché vogliamo collaborare con te per trasformare il mondo in un luogo d’amore! Continueremo a dirgli, perciò, col salmista: “Fammi conoscere, Signore, le tue vie, insegnami i tuoi sentieri. Guidami nella tua verità e istruiscimi, perché sei tu il Dio della mia salvezza, in te ho sempre sperato” (Sal 25,4).
“Come in cielo così in terra”. Con questa frase della nostra preghiera Gesù ci fa ancora alzare gli occhi, o meglio, prevede che noi teniamo il nostro sguardo sempre fisso al di là e al di sopra della terra. Come realizzare la volontà del Padre? Noi siamo qui in terra, ma i nostri desideri devono essere radicati in cielo. In cielo l’amore del Padre non trova impedimenti, perché gli abitanti del cielo sono tutti liberi di amare, liberi da quel forte freno che è l’egoismo, liberi da ogni orgoglio, da ogni tentazione menzognera. Gli abitanti del cielo realizzano la volontà del Padre con determinazione, con prontezza, con gioia, con lo stesso amore con cui Dio progetta i suoi voleri. La nostra terra deve diventare un prolungamento del cielo, e noi ci dichiariamo disponibili a far sì che ciò avvenga. Osserviamo perciò, per quanto ci è concesso, il modo di fare degli angeli e di quei nostri fratelli che già abitano il cielo e lo rendono città di Dio. Essi non mettono davanti alle proposte del Padre altre opinioni, altri ragionamenti, non mettono davanti a lui i propri punti di vista. Essi sanno che la volontà del Padre è l’amore più grande, più bello e più potente, che rende degno di lui chiunque lo realizzi. Angeli e Santi diventano nostri maestri! Come in cielo così in terra! Potremmo rendere questa frase più vicina e attuale dicendo: come in cielo, così in casa mia, così nel mio cuore, così nel mio ambiente!
Allora ho detto: «Ecco, io vengo.
Nel rotolo del libro su di me è scritto
di fare la tua volontà:
mio Dio, questo io desidero;
la tua legge è nel mio intimo». (40,8-9)
Dacci oggi il nostro pane quotidiano
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“Dacci oggi il nostro pane quotidiano”. Fino a poco tempo fa pensavo: «Finalmente Gesù ci fa chiedere qualcosa per noi!». Sì, il nostro orientamento istintivo è pensare che la preghiera sia chiedere, far presenti a Dio le nostre necessità e le nostre sofferenze, come se egli non sapesse, non vedesse e non ci amasse abbastanza. Siamo sempre un pochino pagani, dimentichiamo con facilità che il nostro Dio è nostro Padre, e perciò ci preoccupiamo. Ora, però, Gesù stesso vuole insegnarci anche a presentare le nostre richieste a Dio. Egli stesso aveva detto ai discepoli: “Chiedete e otterrete, bussate e vi sarà aperto” (Lc 11,9) e ha persino raccontato delle parabole per farci conoscere la disponibilità del Padre ad ascoltarci e anche ad esaudirci, come un papà risponde alle richieste dei suoi bambini. Egli vuole che maturiamo una confidenza semplice e vera verso il Padre, una confidenza filiale. Per questo ci insegna a chiedere. Anzitutto egli formula la domanda al plurale, in modo da non lasciarci dubbio: noi non viviamo ciascuno per sè, ma siamo membri di una famiglia. In questa famiglia siamo tutti solidali, partecipi gli uni delle gioie e delle necessità degli altri, in essa siamo fratelli. Se nella famiglia uno è affamato, tutti si preoccupano, tutti soffrono quella fame, e se uno ha del cibo, questo serve per tutti. Gesù aveva dato un esempio con la distribuzione dei cinque pani e dei due pesci. Se chiediamo al Padre qualcosa, lo chiediamo per tutta la famiglia umana. E se vogliamo chiedere al Padre qualcosa, chiediamo soltanto ciò che ci serve veramente; per questo chiediamo “oggi” e il “quotidiano”, cioè il necessario per la giornata, non per accumulare, tanto meno per arricchire. E domani? Domani il Padre sarà ancora Padre, chiederemo ancora, sia per noi che per i nostri fratelli.
Ma le parole di questa preghiera ci pongono un bel po’ di domande. Chi sono quel “noi” cui deve esser dato il pane? E con il termine pane, che cosa si intende? Proprio il pane da mangiare o anche qualcos’altro? E quell’oggi è proprio oggi, il momento in cui viviamo adesso?
Fece piovere su di loro la manna per cibo
e diede loro pane del cielo:
l’uomo mangiò il pane dei forti;
diede loro cibo in abbondanza. (78,24-25)
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“Dacci oggi il nostro pane quotidiano”. Da’ a noi il pane di noi: quel noi lo possiamo pensare in due modi. Il primo è quello che ci viene più naturale: pensiamo a tutti gli uomini, a tutti i popoli. Ci facciamo così interpreti di tutto il mondo, anche di quei popoli che soffrono costantemente la fame e sudano e faticano per sopravvivere… e spesso nemmeno vi riescono! In tal caso la nostra preghiera diventa estremamente impegnativa. Se chiediamo a Dio, nostro Padre, il pane per chi muore di fame e noi ne abbiamo in abbondanza, non possiamo non sentirci seriamente responsabili di quella fame. Sapendo poi che il benessere del mondo occidentale viene dal fatto che gran parte di ciò che consumiamo è prodotto dai popoli poveri, pagato con salari da fame, sentiremo sempre il grido di quei popoli che implora giustizia. Il nostro Padre ci manda notizia della sofferenza di quelle nazioni e messaggeri di iniziative a loro favore: non potremo ignorarle! La nostra preghiera sarà ipocrisia e autocondanna se non restituiamo quanto stiamo continuamente rubando con le mani e con le armi delle società multinazionali, che anche noi sosteniamo depositando denaro nelle banche. La nostra preghiera ci impegna ad essere attenti ad ogni iniziativa che sostiene i poveri del mondo e a sostenerla in maniera generosa. Quando penso a quanto si spende per cose inutili e futili, e persino dannose - non solo fumo e droga, ma anche rotocalchi e riviste inutili e prodotti estetici - mi vergogno al vedere come sono misere le collette in denaro raccolte per i popoli che soffrono la fame. Non possiamo delegare gli stati a provvedervi: questi promettono, ma poi non fanno. Ecco una notizia: “Nel precedente G8 i «grandi» si impegnarono a destinare agli aiuti lo 0,7 % del Pil. Di contro i paesi europei abbassarono questa «grande cifra» allo 0,51% e l'Italia lo ha abbassato addirittura allo 0,1%!” (Antonelli 20/7/09). Quando preghiamo dicendo “dacci oggi…”, pensiamo a chi non ha pane e pensiamo al nostro conto in banca: Dio ci vuol dare decisioni di generosità, perché collaboriamo con la sua paternità che è per tutti.
Tutti da te aspettano
che tu dia loro cibo a tempo opportuno.
Tu lo provvedi, essi lo raccolgono;
apri la tua mano, si saziano di beni. (104,27-28)
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“Dacci oggi il nostro pane quotidiano”. Il “noi” e il “nostro” lo possiamo pensare anche in maniera un po’ più ristretta: chi prega questa preghiera sono i cristiani, i battezzati. Nessun altro al mondo pensa, nemmeno per sogno, di chiamare Dio col nome di Padre e di chiedergli il pane per gli altri. Adesso Gesù mette in bocca a noi, cristiani battezzati, le parole per chiedere il “pane” per noi. A qualcuno sembra egoistico questo modo di pregare. Può Gesù averci insegnato a pensare solo a noi stessi? Pensiamo forse solo per noi? Ci preoccupiamo solo dei cristiani? Se fosse così, daremmo ragione a chi si scandalizza. Ma basta guardare la storia e la geografia per accorgerci subito che i cristiani sono quelli che si preoccupano di tutti, in ogni angolo della terra, persino dove sarebbe loro impedito. Chi conosce le iniziative di Madre Teresa di Calcutta e di moltissimi altri cristiani vissuti prima e dopo di lei, chi sbircia nelle scuole e negli ospedali fondati e gestiti da cristiani nel Medio Oriente o in Africa, vede che la maggioranza di coloro che ne usufruiscono non sono cristiani. Ma, se pensiamo quel “noi” come “noi cristiani”, ed è legittimo pensarlo, ci chiediamo qual è il pane di cui noi cristiani abbiamo bisogno. Qual è il pane che chiediamo al nostro Padre? È solo il pane che mangiamo a pranzo? Noi cristiani abbiamo bisogno di un pane speciale, che alimenti la nostra fraternità, che alimenti il nostro amore per tutto il mondo, che ci faccia crescere nell’unità e nella santità. Il pane di cui noi cristiani abbiamo bisogno è un pane nuovo e vivo, che non alimenti tanto il nostro corpo quanto il nostro spirito. Il pane che Gesù ci fa chiedere al Padre è quello di cui la Chiesa ha quotidiana necessità per essere l’edificio di Dio, capace di accogliere tutti gli uomini per dar loro perdono e pace, comunione e gioia. Il pane di cui ogni cristiano e tutta la Chiesa ha bisogno è il Corpo di Cristo, di cui ogni giorno ci nutriamo. Questo pane ci unisce anzitutto tra noi battezzati, ma poi ci fa essere aperti a donare a tutti, anche a chi non è cristiano e persino a chi ci odia, i segni e i doni dell’amore di Dio.
I leoni sono miseri e affamati,
ma a chi cerca il Signore non manca alcun bene. (34,11)
28
“Dacci oggi il nostro pane quotidiano”. Il pane di cui la Chiesa ha bisogno è il Corpo di Cristo, e noi ce ne nutriamo perché sia stabile in noi la presenza dello Spirito Santo. Così preghiamo durante l’Eucaristia. Prima della consacrazione del pane e del vino, infatti, invochiamo su di essi lo Spirito Santo perché li trasformi “per noi” in Corpo e Sangue di Cristo, e dopo la consacrazione preghiamo: “A noi che ci nutriamo del corpo e sangue del tuo Figlio, dona la pienezza dello Spirito Santo perché diventiamo in Cristo un solo corpo e un solo spirito” (Preghiera eucaristica III). Noi mangiamo il Corpo di Cristo perché abbiamo bisogno dello Spirito Santo. Possiamo quindi dire che, quando Gesù ci ha insegnato a chiedere il pane, pensava allo Spirito Santo, come quando ha raccontato la parabola dei tre amici. In questa parabola (11,5-8) egli racconta che l’amico, che a mezzanotte sveglia l’amico per chiedergli del pane per un altro amico, lo ottiene grazie alla insistenza con cui lo chiede: così Dio Padre dà lo Spirito Santo a chi insiste nel domandarglielo. Lo Spirito Santo è il pane di cui si nutre la Chiesa per crescere, per mantenere l’unità che Gesù ha chiesto al Padre per i suoi discepoli, il pane che accomuna tutti quelli che ne sono nutriti. Quando chiediamo il “pane quotidiano” non dobbiamo pensare solo a quel cibo che ci sazia, ma desideriamo anzitutto lo Spirito che rende noi membra vive della Chiesa, e la Chiesa stessa obbediente al Signore, stabile nell’unità e forte nel vivere la propria missione nel mondo. Per essere testimoni di Gesù in questo nostro mondo, amato da Dio, abbiamo bisogno del suo Spirito, altrimenti non saremo una novità in esso. Chiediamo continuamente lo Spirito Santo, così ovunque andremo porteremo il profumo della presenza di Dio e del suo Cristo; qualunque cosa faremo, saremo un dono del Padre agli uomini bisognosi di conoscerlo e di diventare membra del corpo di Cristo.
Mandi il tuo spirito, sono creati,
e rinnovi la faccia della terra. (104,30)
E rimetti a noi i nostri debiti
29
“E rimetti a noi i nostri debiti”. È un capitolo dolente. Dobbiamo ammettere di essere debitori: di che cosa e verso chi? Quando si presentarono a Gesù farisei ed erodiani per tentarlo, gli chiesero se essi, ebrei, popolo di Dio, dovevano pagare il tributo all’imperatore pagano di Roma. Il Signore si fece mostrare il denaro su cui era impressa la figura e la scritta di Cesare, poi disse: “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” (Mc 12,17). A Dio quel che è di Dio! “Di Dio è la terra e quanto contiene” (Sal 24,1), dice un salmo. Opera delle sue mani è l’uomo, persino “sua immagine e sua somiglianza” (Gen 1,27), sul cui volto risplende la luce divina. Siamo debitori a Dio della nostra stessa vita, e poi di quell’amore che la rende piena e felice; gli siamo debitori persino di ogni bene che riusciamo a compiere, perché ogni nostra capacità, sia intellettuale che fisica, viene da lui. Se diamo a Dio quel che è suo, non ci rimane proprio nulla! Dobbiamo dare a lui anzitutto il nostro cuore, per amarlo con tutte le forze, con tutta la mente, con tutto il nostro essere. Rimetti a noi i nostri debiti, in modo che possiamo vivere sereni, senza paura. Certo, noi non possiamo pagare questo debito, lo dice Dio stesso: “Certo, l’uomo non può riscattare se stesso nè pagare a Dio il proprio prezzo. Troppo caro sarebbe il riscatto di una vita, non sarà mai sufficiente per vivere senza fine e non vedere la fossa” (Sal 48,8-10). Ma poi continua: “Certo, Dio riscatterà la mia vita” (Sal 49,16), ed è questo che chiediamo, che egli stesso ci prenda nelle sue mani e non dia peso alla nostra povertà. I ricchi di questo mondo non hanno alcun vantaggio, perché la nostra vita non la possiamo pagare, e quindi far nostra, con il denaro. Noi, comunque, restiamo sempre opera di Dio e sua proprietà. I ricchi hanno, piuttosto, lo svantaggio dell’illusione di ritenersi autosufficienti: illusione che li deluderà ben presto! La ricchezza, infatti, è dichiarata da Gesù “ingiusta” (Lc 16,9), perché ostacola il sentirci figli di Dio e fratelli, e anche perché inganna: infatti, sul più bello, quando lasciamo questo mondo, essa ci abbandona, non viene con noi e non paga alcun nostro debito.
Ma lui, misericordioso, perdonava la colpa, invece di distruggere.
Molte volte trattenne la sua ira e non scatenò il suo furore;
ricordava che essi sono di carne, un soffio che va e non ritorna. (78,38-39)
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“E rimetti a noi i nostri debiti”. Possiamo giustamente pensare che Gesù abbia inteso chiamare “debiti” anche i peccati, con cui abbiamo rovinato e stiamo rovinando la nostra stessa vita e persino il creato. In questa breve parte della preghiera ritorna due volte il riferimento a “noi”. Come abbiamo già detto, possiamo riferire questo noi alla Chiesa, di cui siamo membri. Anche se discepoli di Gesù, siamo peccatori, abbiamo bisogno continuo di misericordia, di quell’amore che perdona e dimentica. Siamo peccatori, sia perché ciascuno di noi commette il male e disubbidisce a Dio, sia perché, come comunità di fedeli, non diamo testimonianza alla perfezione del suo amore. Siamo debitori, quindi, non solo dei nostri peccati personali e dei danni che ne derivano, ma anche di quei comportamenti sociali ingiusti e senza amore che sosteniamo, a cui non ci opponiamo o nei quali ci lasciamo attirare. A causa di questi comportamenti la fede della Chiesa diventa fiacca, senza nerbo, e la sua incidenza nel mondo si fa molto debole: sale senza sapore, luce nascosta, lievito senza forza. I peccati, quelli in cui i cristiani cadono, e che giustificano, perché divenuti comportamenti diffusi, sono molto deleteri, proprio perché divengono per molti ostacolo a vivere secondo l’insegnamento di Gesù. A causa loro il vangelo appare non più una notizia buona, ma indifferente, perché non incide.
In questo periodo storico, tra i peccati maggiormente diffusi e giustificati dalla mentalità corrente, anche tra i cristiani, emergono quelli che riguardano la sfera sessuale. Le conseguenze di questi peccati sono davvero molte, si moltiplicano a catena e creano innumerevoli gravi sofferenze destinate a durare nei decenni o addirittura nei secoli. Una delle conseguenze peggiori che essi provocano è l’incapacità a vivere la vita familiare, sia ad iniziarla che a portarla avanti. L’opera di Dio più bella, quella della comunione tra gli sposi, che si trasmette ai figli, viene così distrutta. Satana si diverte a creare sofferenze, con la collaborazione di uomini e donne che fanno ritenere un gran bene i loro capricci sessuali e sentimentali. Egli riesce pure a far promulgare agli stati leggi che favoriscono comportamenti sessuali profondamente errati: gli interessi delle società multinazionali, produttrici di strumenti o farmaci finalizzati al piacere sessuale, riescono a far dimenticare e a rovinare il vero bene delle persone, delle famiglie e dell’intera società.
Pietà di me, o Dio, nel tuo amore;
nella tua grande misericordia
cancella la mia iniquità. (51,3)
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“E rimetti a noi i nostri debiti”. Abbiamo detto che, con i nostri peccati in campo sessuale, danneggiamo tutta la società. Infatti questi peccati distruggono la coscienza del significato della famiglia, rovinano la psiche dei figli, ancor da piccoli, rovinano i rapporti interpersonali, facilitano l’accoglienza e la giustificazione dell’aborto. Questo, poi, porta a cambiare la mentalità riguardo al valore della vita stessa dell’uomo. È una catena di disvalori che sembra non finire più! Condizionando, o quasi, le famiglie a limitare il numero dei figli a uno o due, obblighiamo questi ultimi a vivere in solitudine, a rimanere privi delle rassicuranti esperienze di fraternità e di parentela. Facilitando, con una mentalità permissiva, le separazioni e i divorzi, sosteniamo la rovina psicologica di una marea di bambini e ragazzi: che adulti diventeranno? A quali malformazioni psichiche andranno incontro? Quali saranno le conseguenze sociali, tra cinquant’anni?
Anche tutti gli altri peccati creano disordini, malattie e sofferenze che lasceranno dietro a sé, nei secoli, gravi e profondi strascichi. Le avidità e le avarizie, ad esempio, dividono i fratelli dai fratelli, producono ansie e risentimenti; questi poi, a loro volta, procureranno vari scompensi e sviluppo di malattie diverse e sconosciute. Ogni tipo di peccato produce nella società diffidenza reciproca, che rende difficile e amara la vita. Unico rimedio è il perdono, che dobbiamo domandare, ricevere e donare. Lo chiediamo, e lo chiediamo con insistenza. Lo chiediamo al Padre: soltanto lui può perdonarci davvero! Noi crediamo che il suo perdono è vero, e porta frutto. Il perdono ci dà pace e ci riconsegna la gioia dell’esser figli, amati da Dio stesso. Ricordiamo la parabola con cui Gesù ci ha fatto vedere come il perdono dia gioia e ricostruisca i rapporti rovinati: è la parabola del figlio che ha abbandonato la casa del padre. Dio Padre fa festa quando noi chiediamo perdono. Il nostro venir perdonati è la sua gioia!
Nemmeno dopo un peccato grave o una grave situazione negativa possiamo dire che ormai tutto è finito e non c’è più rimedio. Non possiamo, però, nemmeno prendere le cose alla leggera e dire che Dio è misericordioso comunque, e quindi non serve umiliarsi a chiedere perdono. Il perdono lo chiediamo: Gesù ci mette in bocca questa preghiera! Ci fa bene umiliarci a chiedere perdono: se non lo facessimo, resteremmo nel nostro orgoglio, cioè nel peccato, lontani dall’amore del Padre nostro!
Sì, le mie iniquità io le riconosco,
il mio peccato mi sta sempre dinanzi.
Contro di te, contro te solo ho peccato,
quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto: (51,5-6)
come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori
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“Come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Abbiamo chiesto la remissione dei nostri debiti e peccati, e abbiamo fiducia di ottenere la misericordia che il Padre nutre per tutti i suoi figli e per tutte le sue creature. Ci viene però spontaneo domandarci come possiamo chiedere perdono, se poi noi non perdoniamo a coloro che ci avessero offeso. Come potremmo chiedere remissione dei debiti se noi non li rimettessimo a nostra volta ai nostri fratelli? Gesù ha raccontato una parabola molto significativa e chiara anche a questo proposito, la parabola del servo malvagio. Quel servo si è dimostrato malvagio perché, dopo aver ottenuto il condono di un somma enorme solo per aver pregato il suo padrone, non è stato a sua volta capace di condonare una piccola somma ad un compagno di servizio. Tale malvagità ha meritato un castigo peggiore di quello che gli sarebbe stato inflitto per non aver pagato il suo debito: “Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno come io ho avuto pietà di te?” (Mt 18,33). Per questo noi diciamo al Padre di prendere la misura della sua generosità per perdonarci dalla disponibilità che noi stessi abbiamo a perdonare tutto a tutti. Gesù stesso ha concluso così l’insegnamento sulla preghiera: “Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe” (Mt 6,14-15). Gli apostoli hanno portato avanti l’insegnamento di Gesù: “Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo” (Ef 4,32).
Per riuscire a perdonare noi dobbiamo guardare a quanto Dio Padre ha già fatto verso di noi: egli non ci chiede di meritare il suo amore, ce lo dona gratuitamente, ma si aspetta che, come veri figli, impariamo i suoi metodi e ritrasmettiamo il suo perdono. Ripensiamo anche la parabola del figlio prodigo: in essa Gesù ci racconta la capacità che ha Dio di perdonare al figlio che l’ha offeso con il suo comportamento. Il suo perdono diventa festa per tutti! L’altro figlio, purtroppo, non è riuscito ad assumere lo stesso atteggiamento del padre: si è dimostrato in tal modo ancora più lontano da lui, ancor più distante che non il fratello minore quando sperperava i beni con le prostitute o pascolava i porci, animali immondi.
Non ci tratta secondo i nostri peccati
e non ci ripaga secondo le nostre colpe.
Perché quanto il cielo è alto sulla terra,
così la sua misericordia è potente su quelli che lo temono. (103,10-11)
33.
“Come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Anche in questa frase della preghiera il soggetto è “noi”. Abbiamo già annotato, a questo proposito, che con il “noi” s’intende la Chiesa. Questo ci consola. Non è facile perdonare: a volte il torto che abbiamo ricevuto ci sembra tanto grave da non riuscire a perdonarlo! Pensate, ad esempio, se qualcuno rivelasse i nostri segreti, oppure se qualcuno di cui avevamo grande fiducia ci derubasse, oppure se un marito diventasse infedele e tradisse la moglie che si fidava ciecamente di lui, o, ancora, se uno ci uccidesse il figlio o la madre… Come sarebbe difficile perdonare! Talora, se non fossimo abituati, non ci sembrerebbe nemmeno possibile! Come potremmo dunque dire: “Come noi li rimettiamo…”? Sì, noi, come Chiesa, li rimettiamo! La Chiesa rimette i peccati a tutti coloro che con umiltà chiedono perdono a Dio. E la Chiesa sa ubbidire a Gesù anche riguardo al numero “settanta volte sette”! Anche se mi sembra di non essere capace di perdonare, posso dunque dire: “Come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Non io, ma noi! Dio prende come misura, per perdonare a me, non il mio perdono, ma il perdono della Chiesa. Il “come” potrebbe anche significare “poiché”: poiché noi li rimettiamo… In questo caso Dio dovrebbe sentirsi quasi obbligato a perdonarci, altrimenti noi saremmo migliori di lui! Noi, però, a nostra volta, ci sentiremmo ancor più impegnati a rendere il nostro perdono sempre più vivo verso tutti quelli che ci avessero procurato qualche danno. Io mi sono abituato, quando ho difficoltà a perdonare, a dire al Signore: «Perdona tu, Signore Gesù, quel tale: concedigli di incontrarti, per essere salvato; concedigli di conoscerti, di amarti, di donarsi a te». In questo modo supero l’ostacolo: quel tale riceverà ancor più di quanto avrebbe potuto ricevere col mio perdono! Mi è di grande aiuto ricordare che io stesso sono peccatore, e sempre in pericolo di cadere nel peccato. Se io non perdono, chi perdonerà a me? Ricordarmi che sono peccatore è grande sapienza: mi rende umile, e perciò aperto a Dio e agli uomini, e per di più mi mette nella condizione di poter essere amato da Dio e dagli uomini.
Come è tenero un padre verso i figli,
così il Signore è tenero verso quelli che lo temono,
perché egli sa bene di che siamo plasmati,
ricorda che noi siamo polvere. (103,13-14)
e non ci indurre in tentazione
34.
“E non ci indurre in tentazione”. Nella traduzione italiana (2008) del vangelo questa frase è stata riproposta così: “e non abbandonarci alla tentazione”. Che cos’è la tentazione? La parola greca che viene tradotta col termine “tentazione” contiene anche il significato dell’esser messi alla prova: pure questo concetto dovrebbe apparire nella traduzione! Questa preghiera potrebbe essere intesa così: non permettere che cadiamo, quando siamo tentati; non lasciarci alle nostre forze, quando siamo messi alla prova; donaci la tua assistenza, perché vogliamo donarti la nostra fedeltà! La Scrittura dice che gli amici di Dio devono essere messi alla prova: la nostra fedeltà deve essere dimostrata dai fatti, la nostra fede in lui non è affidabile finché non l’abbiamo provata, il nostro amore al prossimo non è sicuro finché non ha superato le difficoltà dell’incomprensione e dell’ingratitudine. Abramo è stato messo alla prova, e più di tutti. Isacco è stato messo alla prova e così pure Giacobbe. Conosciamo come ha superato le sue prove Giuseppe, il figlio di Giacobbe, e come Mosè ed Elia hanno dovuto affrontare la solitudine per dimostrare la loro fedeltà a Dio. Un intero libro è stato scritto e inserito tra i testi sacri per aiutarci a vincere tentazioni e superare prove difficili e dolorose, il libro di Giobbe. Ancora, così parlò Giuditta ai suoi concittadini: «Oltre tutto ringraziamo il Signore Dio nostro che ci mette alla prova, come ha già fatto con i nostri padri. Ricordatevi quanto ha fatto con Abramo, quali prove ha fatto passare ad Isacco e quanto è avvenuto a Giacobbe in Mesopotamia di Siria, quando pascolava i greggi di Libano, suo zio materno. Certo, come ha passato al crogiuolo costoro non altrimenti che per saggiare il loro cuore, così ora non vuol far vendetta di noi, ma è a fine di correzione che il Signore castiga coloro che gli stanno vicino» (8,25-27). La Bibbia ci descrive anche cosa significa non essere in grado di superare la tentazione: Davide ha ceduto alla tentazione di peccare di adulterio e poi a quella del salvare la propria faccia ricorrendo all’omicidio. Salomone ha ceduto alla tentazione di concedersi molte donne, e queste lo hanno portato ad appoggiare la loro idolatria… E molti altri hanno mostrato fin dove può arrivare la debolezza dell’uomo! La storia della salvezza è un intrecciarsi di infedeltà, cadute e castighi con piccole e grandi vittorie della fede e dell’amore a Dio. L’umile viene aiutato a superare le prove e a non cedere alla tentazione, mentre il superbo cade miseramente in essa: egli infatti vuole far da solo, non si lascia aiutare e non chiede aiuto a Dio, l’unico che può soccorrerci.
Il Signore ti custodirà da ogni male:
egli custodirà la tua vita. (121,7)
35.
“E non abbandonarci alla tentazione”. Da quale tentazione chiediamo a Dio di custodirci? È una sola o sono molte? Certamente si tratta della tentazione che Gesù stesso ha dovuto sopportare e vincere. Due evangelisti ce la descrivono con alcuni particolari. Gesù è stato tentato nel deserto, dove era arrivato spinto dallo Spirito. Le parole della tentazione volevano che Gesù, riconoscendosi Figlio di Dio, esercitasse potenza e dominio sul creato o sugli uomini: in tal modo egli avrebbe considerato Dio come il padrone, non il Padre, e se stesso come figlio del padrone, che fa e può fare quello che vuole, senza doverne rendere conto a nessuno. Noi sappiamo che Gesù ha risposto “Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Mt 4,4), come per dire: io farò solo ciò che mi dirà il Padre, starò in ascolto del Padre, starò in obbedienza! In seguito, varie volte Gesù ha riconosciuto, nelle parole dei farisei o degli scribi o di altre persone ancora, la presenza del medesimo tentatore. Dicendo “non abbandonarci alla tentazione” è come supplicassimo il Padre di renderci capaci di ascoltarlo, di ubbidirgli, di essere attenti ai suoi cenni. Lo preghiamo di darci la luce e la forza di non seguire i nostri pensieri e le nostre idee, di non seguire i modi di pensare del mondo che ci circonda, nemmeno dei cosiddetti grandi che, ingannando e seducendo, modificano i pensieri e le convinzioni degli uomini; gli chiediamo di renderci partecipi dell’obbedienza amorosa di Gesù. La tentazione viene a noi in modo molto sottile, ci presenta ragionamenti talmente plausibili che ci pare di dover condividere, ma che ci allontanano dal cuore di Dio: ci fa vedere cose e ragionamenti come fossero più importanti dell’amore. In tal modo, pur credendo che, come dice S. Giovanni, “Dio è amore” (1Gv 4,8), ci comporteremmo come se Dio fosse ragionamento. La tentazione voleva attirare Gesù ad essere sì Messia, ma un Messia che accontenta i desideri egoistici degli uomini. Egli, invece, sapeva di essere mandato dal Padre a mostrare e percorrere una via nuova, quella dell’amore “sino alla fine” (Gv 13,1), dell’amore che rimane amore anche a costo di essere rifiutato e ucciso. Il tentatore si comporta così anche con noi: aiutati da Gesù e aggrappati a lui, continueremo ad amare.
Il Signore ti custodirà
quando esci e quando entri,
da ora e per sempre. (121,8)
36
“E non abbandonarci alla tentazione”. Abbiamo visto che il tentatore non vuole che noi conosciamo Dio come egli veramente è, cioè Padre che ama e gode dell’amore. Egli vuole farcelo vedere come un Dio potente, dominatore, padrone, così da essere riconosciuto egli stesso, il diavolo, come dio. Nessuno di noi ammetterebbe una cosa simile né accetterebbe di adorare il maligno al posto di Dio; la tentazione, però, è sottile e noi vi potremmo cadere facilmente, se non fossimo attenti e non ci lasciassimo aiutare: potremmo, cioè, facilmente intraprendere delle azioni oppure accogliere degli atteggiamenti che lasciano credere che Dio è padrone e non Padre. Come già detto, il diavolo si serve dei nostri ragionamenti per allontanarci dal Padre. Noi sappiamo che Dio è amore e che, perciò, lo incontriamo sulla via dell’amore; sappiamo che noi stessi diventiamo rivelazione di Dio e sua profezia attraverso l’amore. Può succedere, però, - e qui appare l’opera del tentatore - che veniamo trascinati a ragionare su ciò che «è meglio»: entra, in questo caso, in noi uno spirito che ci fa sentire al di sopra degli altri, sicuri di aver ragione. La nostra vita, allora, non manifesta Dio: quando sono attento alle mie buone ragioni più che alla testimonianza da rendere al Signore Gesù, alle altre persone non faccio gustare l’amore paziente, misericordioso e mite di Dio, ma faccio loro provare, invece, l’amarezza della superbia e la voglia di averla vinta, cose tipiche di Satana. La verità è l’amore di Dio: se non faccio vedere qualcosa del suo amore, non sono nella verità, anche fossi convintissimo di «aver ragione». Anche se la mia idea e la mia memoria fossero vincenti, se il fratello non può percepire attraverso di me l’amore di Dio, io resto nella menzogna e diffondo l’odore della menzogna ovunque. Un santo, S.Ignazio di Lojola, si era dato come motto, cioè come parola da tener presente sempre e su cui valutare ogni decisione: “Per la maggior gloria di Dio”. Questa frase lo aiutava a scegliere, tra le varie cose, atteggiamenti e iniziative, quella che potesse manifestare di più l’amore fedele, misericordioso, umile, continuo, generoso, paziente e benevolo di Dio. Se anche noi facessimo così, la nostra vita diventerebbe manifestazione di Dio, un aiuto a tutti per assaporare la sua dolcezza, la sua bontà, la sua forza, la sua semplicità. Ogni tentazione, cercando di distoglierci da questa strada, vorrebbe portarci a nascondere la bellezza e la bontà di Dio e a comunicare invece l’idea che egli è un padrone che opprime.
Per me, il mio bene è stare vicino a Dio;
nel Signore Dio ho posto il mio rifugio,
per narrare tutte le tue opere. (73,28)
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“E non abbandonarci alla tentazione”. Ogni volta che cadiamo in qualche disobbedienza a Dio la nostra vita diventa menzogna: agli altri diamo l’idea che Dio sia uno che appoggia il nostro modo di fare, il nostro peccato. È molto pericoloso, quindi, il peccato degli uomini di Dio, e, per chi non è cristiano, è pericoloso il peccato di ogni cristiano. Chiediamo, perciò, con forza e con umiltà: “E non ci indurre in tentazione”. Abbiamo tentazioni contro la vita, contro la sessualità, contro il matrimonio, contro il rispetto delle cose e dei tempi riservati a Dio. Il diavolo cerca di rovinare ogni aspetto e ogni ambito della nostra vita, ogni dono che abbiamo ricevuto e ogni possibilità che ci viene offerta di collaborare con Dio. Egli, soprattutto, proprio come dice il nome che adoperiamo per individuarlo, tenta di dividerci: diavolo significa divisore. Egli ci divide da Dio, ma anche tra di noi semina zizzania. Egli distrugge l’opera dello Spirito Santo: questi è Spirito di comunione e di pace, quello di divisione e di lotta. Il diavolo non vuole la nostra gioia, e perciò cerca d’impedirci la gioia della comunione, gioia che solo Gesù può donare. Ogni tentazione che accogliamo ha come frutto il peccato, e il peccato non è mai un aiuto, per nessuno. Il diavolo vorrebbe farci credere che dobbiamo aiutare i nostri amici, anche quando essi disobbedissero a Dio. Con questo inganno egli riesce a far sì che ragazzi e ragazze, con lo scopo di andare d’accordo, pecchino contro il comandamento di Dio. Giovani e ragazze, in tal modo, invece di prepararsi al matrimonio si preparano a non comprenderlo, a non riuscire a viverlo, a porre le sue basi sulla sabbia anziché sulla roccia sicura. Il diavolo vorrebbe soprattutto far sì che la divisione regni nella Chiesa. Nelle parrocchie e nei monasteri egli semina divisione: là dove vi riesce non si può più gustare la presenza di Dio e l’amore perfetto di Gesù. Gesù stesso ha pregato intensamente il Padre di custodire dal maligno i suoi discepoli e di donare loro la grande grazia dell’unità. Vivendo uniti i cristiani manifestano la pienezza dell’amore che regna tra il Padre e il Figlio, e così diventano luce e grazia divina per il mondo.
Quando dicevo: «Il mio piede vacilla»,
la tua fedeltà, Signore, mi ha sostenuto. (94,18)
ma liberaci dal male
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“Ma liberaci dal male”. Gesù ha lasciato questa richiesta al termine della preghiera: il male è spesso presente nella vita del cristiano e del mondo in cui il cristiano vive, e perciò è importante chiedere di esserne liberati. Da solo l’uomo non riesce a vincere il male, nè quello che lo colpisce dall’esterno, nè quello che lo insidia dall’interno del proprio cuore. “Ma liberaci dal male”. Chi legge questo testo nella lingua dell’evangelista potrebbe tradurre un po’ più plasticamente: “Ma strappaci dal maligno”. Il maligno ci ha già azzannati, potremmo dire, avvicinandoci all’espressione usata da S.Pietro, quando scrive: “Va in giro come leone ruggente cercando chi divorare” (1Pt 5,8). Il maligno ormai ci possiede, e non ci lascia più fuggire. Egli è già intervenuto nella nostra vita e vanta diritti su di noi. Pensiamo ai peccati nostri e dei nostri antenati, peccati di cui soffriamo l’eredità. Potremmo ricordare non solo ricchezze rubate, ma anche sentimenti e relazioni disordinate, comportamenti che hanno alimentato divisioni e discordie: sono tutte vicende derivate da decisioni superficiali ed errate prese da noi, o da altri per noi, e di cui forse non verremo mai a conoscenza. Essi sono motivi per cui l’avversario può dire che gli siamo debitori, almeno in parte. L’aiuto per accorgercene e liberarcene può venirci solo dall’alto, da Dio, da quel Dio che ama gli uomini come figli. Al nostro Padre, perciò, chiediamo: “liberaci dal male”, strappaci dal maligno. Noi non abbiamo le forze sufficienti e nemmeno il coraggio, neppure la decisione necessaria per allontanarci dal diavolo. Se non interviene il nostro Padre, noi restiamo incatenati. Il maligno riesce ad ammaliarci, come il falco l’allodola o come il serpe gli animali che poi divora. Chiediamo a Dio perciò di non lasciarsi intenerire dai nostri lamenti: pur di salvarci la vita, usi tutti i mezzi necessari, anche se ci fanno soffrire. Davvero, per strapparci dal maligno Dio deve compiere talora delle operazioni dolorose: deve farci passare per la malattia, o per il fallimento delle nostre speranze, o per la distruzione delle nostre opere. La nostra vita gli preme e non può lasciarcela distruggere per qualcosa che vale molto meno. Noi stessi glielo chiediamo quando gli diciamo “liberaci dal male”.
Non lascerà vacillare il tuo piede,
non si addormenterà il tuo custode. (131,3)
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“Ma liberaci dal male”. Gesù stesso, pregando il Padre per i suoi discepoli, ha chiesto: “Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal maligno” (Gv 17,15). Egli sa che i pericoli del mondo sono quelli che vengono dal suo “principe”, da colui che riesce a distrarre, ingannare, illudere e sedurre. Il maligno riesce a far apparire come bene ciò che è disobbedienza a Dio, riesce a far ragionare sull’obbedienza e a non lasciarci vedere il male di scelte compiute contro o senza il beneplacito divino. Noi dobbiamo essere sempre vigilanti e attenti. Ciò che non è benedetto da Dio non può portare frutti di bene nella nostra vita. Ciò che non è voluto da Dio, anche se appare a noi come cosa buona, è inganno. La nostra vigilanza deve portarci a interrogarci sempre se ciò che facciamo e ciò che decidiamo può essere benedetto dal Signore, se gli dà gloria, se è conforme ai suoi insegnamenti. Questa vigilanza e conseguente discernimento spirituale, purtroppo, non è sempre presente in noi ed è per questo che ci troviamo facilmente immersi nell’errore e nel peccato. Il maligno riesce a rovinarci gli occhi e il cuore, a deporre dentro di noi l’ira e l’invidia, l’odio e l’impurità, la pigrizia e la superficialità, l’avidità, la vanità e l’orgoglio. Spesso ci ritroviamo il male nel cuore e nel corpo senza sapere da dove viene, ma la Parola del Signore è illuminante: lo ha seminato il maligno, come il nemico ha seminato la zizzania nel campo del buon grano (cf Mt 13,24ss). Non abbiamo capacità sufficienti per liberarci dai danni che il maligno opera in noi, e nemmeno dal suo influsso forte e frequente. Abbiamo, però, la possibilità di chiedere a Dio, nostro Padre, il suo intervento. Egli ha mandato Gesù per liberare gli uomini dal potere del diavolo, come ha detto san Pietro al centurione Cornelio (Atti 10,38). Il Padre ci esaudisce e ci fa stare uniti a Gesù: “Viene il principe del mondo; egli non ha nessun potere su di me” (Gv 14,31). “Nessuno le rapirà dalla mia mano. Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti e nessuno può rapirle dalla mano del Padre mio.” (Gv 10,28s). Gesù ci custodisce, ci protegge, ci difende. I modi con cui lo può fare sono infiniti, dato che può servirsi anche degli angeli! Tra questi, in particolare, San Michele arcangelo, di cui è scritto che ha vinto e scacciato Satana (cf Ap 12,7).
Piega il mio cuore verso i tuoi insegnamenti
e non verso il guadagno.
Distogli i miei occhi dal guardare cose vane,
fammi vivere nella tua via. (119,36-37)
Continuare…
40.
Abbiamo ripassato la preghiera che Gesù ha proposto ai discepoli e abbiamo cercato di cogliere gli atteggiamenti da sviluppare nel nostro rapporto con Dio. La preghiera, infatti, se è vero incontro con Dio, non è fatta solo di parole, ma soprattutto di atteggiamenti interiori ed esteriori che cambiano la nostra vita. Se è vera preghiera, non è un atto che finisce col finire delle parole che si recitano, ma è vita che continua per ore e ore, giornate e settimane… Gesù, insegnandoci a pregare, ci ha insegnato a vivere. La nostra vita non rimane nascosta agli altri, anzi, essi ne godono e ne ricevono consolazione e forza. Già il nostro pregare non è azione nascosta, benché si svolga principalmente nel cuore. Per questo quando preghiamo assumiamo un atteggiamento di raccoglimento, dove si vede che siamo immersi in un mondo diverso da quello della materialità che ci circonda. Il nostro pregare deve manifestare anche, a noi stessi anzitutto, che siamo davanti al Padre che è nei cieli, perciò alziamo gli occhi aperti e apriamo le braccia tendendo in alto le mani. È un gesto espressivo ed eloquente. Qualcuno fa fatica ad assumere questa posizione, perché essa comporta un distacco interiore da se stessi per riconoscere la presenza di colui che non vediamo con gli occhi, ma solo col cuore e con la fede. È una fatica, perché è mettersi nell’atteggiamento di chi accetta di conformarsi al Figlio di Dio, che ha vissuto il suo amore completo e perfetto sulla croce. Alzare le mani per pregare equivale a dire a Dio: «Crea in me un cuore nuovo e puro, uniscimi al tuo Figlio, che si è offerto a te sulla croce, riempimi del tuo amore per tutti, anche se ciò comporta il mio morire a questo mondo».
La preghiera inizia e si chiude col segno di croce; questo è un segno che riassume i nostri desideri profondi di credenti: essere continuamente immersi nell’amore del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo ed essere partecipi concretamente dell’amore che Gesù ha manifestato e vissuto sulla sua croce. Spesso il segno di croce ci lascia indifferenti, non serve a nulla, perché viene dall’abitudine e non dal cuore. Esso dovrebbe ricollegarci al battesimo, quindi alla vita nuova, diversa da quella di chi è del mondo, cioè da quella che vivevamo quando ci lasciavamo condizionare dal mondo. Esso dovrebbe suscitare o rafforzare il desiderio di essere uniti a Gesù, che sulla croce vive la sua gloria, la manifestazione piena dell’amore di Dio. Se fosse così, il breve segno di croce sarebbe davvero una bella introduzione e preparazione a dire la preghiera del Padre nostro, e un aiuto a concluderla senza che termini l’incontro con Dio!
La mia preghiera stia davanti a te come incenso,
le mie mani alzate come sacrificio della sera. (141,2)
Per concludere
Il sottotitolo di questo quaderno può sembrare strano: «40 passi per la preghiera “esaudita”». Quando la preghiera è “esaudita”?
La vera preghiera è sempre esaudita: non è possibile, infatti, che il Padre non ascolti i suoi figli, perché Gesù lo ha promesso: “Chiedete e vi sarà dato, bussate e vi sarà aperto”! Un abate, Matta el Meskin, vissuto nel XX° secolo in uno dei più antichi monasteri d’Egitto, ci offre una rassicurante annotazione (Consigli per la preghiera, ed. Qiqaion, 1988). La nostra preghiera viene esaudita da Dio quando è vera. Se intendiamo per preghiera il chiedere, notiamo che non sempre Dio ci ascolta; solo lui, infatti, sa qual è il vero bene nostro, delle persone a noi care e della Chiesa, mentre noi, spesso, lo ignoriamo. Sempre, però, egli acconsente al desiderio più profondo della nostra vita, benché noi nemmeno riusciamo a formularlo: ci dona Spirito Santo, il bene più prezioso. Con esso egli ci fa partecipare al suo amare e al suo godere, ci rende divini! Il Padre esaudisce il nostro pregare cambiando la nostra vita! Se, durante la preghiera, preghiamo davvero, ci uniamo a Dio e veniamo trasformati nel suo amore, siamo coperti della sua sapienza. Dopo la preghiera ci ritroveremo miti, pazienti, pacifici, rassicurati, sereni, disponibili ai fratelli, fedeli, puri, umili e gioiosi, distaccati dalle cose della terra e orientati al cielo. Saremmo così … esauditi! Se, invece, il nostro pregare non fosse vera preghiera, dopo di essa, anche se prolungata, ci ritroveremmo impazienti, indisponibili, permalosi, attaccati al denaro e alle nostre idee, impuri e superbi.
È davvero necessario pregare sempre, come Gesù ci ha mostrato e insegnato, per essere sempre di nuovo trasformati, per essere immersi ogni giorno e ogni ora nell’amore del Padre! Gesù gode di continuare ad insegnarci a pregare e di accoglierci nella sua preghiera. Per questo è venuto, perché noi, dopo essere stati purificati nel suo Sangue, veniamo divinizzati grazie al suo Spirito, e ne diffondiamo nel mondo la luce e la grazia.
Mi invocherà e io gli darò risposta;
nell’angoscia io sarò con lui,
lo libererò e lo renderò glorioso. (91,15)
Copertina:
Gesù risorto ascende al cielo (disegno, lab. Ss.Martiri)
Gesù ci ha insegnato a pregare, ed ora anch’egli, alla destra di Dio, accoglie la nostra preghiera, anzi vi partecipa: è lui che la presenta al Padre avvalorandola con l’offerta della sua vita. Grazie a lui osiamo perciò con fiducia e con gioia dire o cantare: “Padre nostro!”.
Nulla Osta: P. Modesto Sartori ofmc, cens. eccl., Trento, 18/05/2012
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