UN GERMOGLIO GIUSTO
UN GERMOGLIO GIUSTO
Omelie delle domeniche dei Tempi Forti anno C |
La Parola di Dio è sempre fonte di speranza, di sapienza, di consiglio, è nutrimento, è conforto ed è riposo. Ci fa bene riascoltarla, e soprattutto rimeditarla, cioè darle occasione di illuminare i vari momenti della nostra vita in tutti i suoi aspetti. L’omelia domenicale cerca di essere aiuto in questo lavoro interiore. Gesù, che ci raduna ogni domenica attorno a sè, è il “Germoglio giusto” promesso dal profeta Geremia: egli è la risposta del Padre alle nostre speranze e ai nostri desideri quotidiani. È sempre nuovo, come il germoglio, promessa di un futuro bello, ricco di frutti.
Riconoscente a chi mi ha aiutato con la sua attenzione e con i suoi esempi,
Don Vigilio Covi
Omelie delle domeniche dei Tempi Forti anno C
Scritte nel 2013 – la 2 TN nel 2004 – le 6 7 8 del T.O. nel 2002
1ª Domenica di Avvento - C
1ª lettura Ger 33,14-16 * dal Salmo 24 * 2ª lettura 1Ts 3,12 - 4,2 * Vangelo Lc 21,25-28.34-36
L’apostolo San Paolo ci esorta oggi “a progredire ancora di più” nell’amore e nella santità. Iniziamo così l’anno liturgico, ricominciando la nostra contemplazione del Signore Gesù Cristo per fare un passo ulteriore nella nostra adesione a lui e crescere nella nostra statura spirituale. Ogni anno che passa dovrebbe trovarci più maturi non solo di esperienza umana, ma anche di vitalità di fede e di carità. Anche quest’anno quindi dovrà diventare un anno di grazia: lo sarà per quel tanto che metteremo impegno nella preghiera e nella nostra istruzione, nell’affrettarci a conoscere la fede della Chiesa e saper così rendere ragione di quanto crediamo a coloro che, o con la bocca o con gli occhi, ci interrogano.
Il profeta Geremia aveva annunciato al popolo le conseguenze nefaste della disobbedienza a Dio e della idolatria. Ora il popolo soffre davvero l’esilio e la schiavitù ed è tentato di rassegnazione e di disperazione. In questa situazione il profeta leva ancora la voce per annunciare ai credenti l’intervento di Dio per la salvezza e la ricostruzione di una vita degna di figli di Dio. Dio è sempre il Dio della vita e della pace, quindi della gioia e della serenità. Ecco, si realizza ciò che egli ha promesso: arriverà il “germoglio giusto, che eserciterà il giudizio e la giustizia sulla terra”! Noi sappiamo chi è questo germoglio giusto, e rischiamo di dare tutto per scontato, di pensare di conoscerlo già abbastanza e quindi di non doverci attendere nulla di più e di non aver più nulla da imparare da lui.
Anche sulla nostra terra, oggi, c’è bisogno di giudizio e giustizia: non le troveremo rivolgendoci a nessuno dei cosiddetti grandi, di coloro su cui scommettono i manifesti di propaganda che abbiamo visto e che vedremo. Troveremo il giudizio e la giustizia solo in quel germoglio giusto che ora viene annunciato. È un germoglio: questa parola indica novità, evoca sorpresa, risveglia attesa paziente. Di un germoglio non si vedono ancora nè i fiori nè tanto meno i frutti; di esso si intravede però la vitalità che dona speranza, quindi ci infonde la gioia tipica di chi attende sicuro.
Le prossime domeniche e settimane le chiamiamo «di Avvento», per ricordarci ed esercitarci ad attendere il Germoglio! Quest’attesa dovrebbe far crescere in noi e per noi l’importanza di colui che attendiamo.
Il brano evangelico vuole appunto aiutarci a riflettere sulla nostra esperienza: tutto passa, e anche la nostra vita, cui siamo così attaccati, avrà una fine che noi non abbiamo possibilità di evitare e nemmeno di spostare. La fine della vita poi non è una fine, ma il passaggio al Giudizio che sancirà la nostra situazione per l’eternità. Dobbiamo avvicinarci a questo momento con terrore e vivere quindi nella paura? No affatto! Colui che giudica è quel “germoglio giusto” che noi attendiamo, su cui poniamo la nostra speranza e da cui riceviamo la gioia, è colui che viene per salvare coloro che lo invocano. Prendiamo seriamente gli avvertimenti proprio per rendere stabile, perseverante e continuo il nostro attaccamento e il nostro ascolto a colui che viene, il Figlio dell’uomo. Questi non ci fa paura, anzi, ci rende leggeri e sereni. È per amore e con amore che lo attendiamo, e lo attendiamo anche quando vediamo passare il tempo, i mesi e gli anni, senza che succeda nulla di buono. Egli rimane il nostro pensiero fisso, egli riempie i nostri desideri, anzi diventa il nostro desiderio fondamentale. È lui che dà fondamento e stabilità ai nostri rapporti reciproci, da quelli familiari a quelli di amicizia e persino a quelli di lavoro e di svago. Solo con chi crede in lui ci sentiamo al sicuro e abbiamo libertà di aprire il cuore. È lui la vita, il significato e la gioia della vita.
Piuttosto che lasciarci prendere dalla paura della fine della nostra vita e della fine di tutto il mondo creato, cerchiamo di progredire nell’amore e nella santità. Saremo un sostegno e un dono per coloro che ci circondano e saremo una luce per chi ritiene di vagare nel buio e per chi è senza speranza. Iniziamo dunque il tempo di Avvento e il nuovo anno liturgico sostenuti dalle promesse di cui si è fatto portavoce il profeta Geremia: “Io realizzerò le promesse di bene che ho fatto alla casa di Israele e di Giuda” e “Gerusalemme vivrà tranquilla”. E teniamo nel cuore la preghiera che il salmo ci suggerisce:
“Guidami nella tua fedeltà e istruiscimi, perché sei tu il Dio della mia salvezza”.
2ª Domenica di Avvento - C
1ª lettura Bar 5,1-9 * dal Salmo 125 * 2ª lettura Fil 1,4-6.8-11 * Vangelo Lc 3,1-6
Questi giorni di Avvento ci dovrebbero abituare a stare in attesa. A dire il vero noi siamo sempre in attesa: infatti attendiamo miglioramenti della nostra vita, attendiamo cambiamenti, attendiamo visite mediche, attendiamo qualche attenzione da parte di qualcuno… Queste nostre attese ci fanno stare in tensione, ci rendono inquieti, spesso alimentano una certa rabbia...! L’attesa cui ci esercita l’Avvento è diversa, è un’attesa che ci fa stare nella gioia. Attendiamo infatti il salvatore, colui che ci guarisce dai nostri mali e aggiunge a tutti gli aspetti della nostra vita significati nuovi.
Le profezie che leggiamo in questo periodo sono tutte annuncio di felicità. Baruc, il segretario del profeta Geremia, nella pagina che abbiamo sentito, annuncia alla città di Gerusalemme gioia e felicità. I mali cui era stata sottomessa saranno risanati. Il popolo è stato deportato, ma, ecco, ritornerà. La città devastata e ridotta a macerie risuonerà ancora dei canti di persone che vivono in armonia a comunione. Dio non mostra più il volto corrucciato, ma, anzi!, adopererà il popolo per manifestare la sua gloria. La misericordia che Dio userà per il popolo sarà evidente, tanto che Dio ne guadagnerà onore davanti a tutti.
La vera gioia annunciata al popolo è profezia del Messia. Quando questi arriverà, ci sarà gioia per tutti, perché è lui che compirà il Vangelo, la buona notizia della benevolenza di Dio. Giovanni Battista annuncia solennemente l’imminenza dell’arrivo di colui che è atteso. Se egli viene, noi gli dobbiamo preparare la strada. Quali sono i burroni che devono essere riempiti e i monti che devono essere abbassati e le vie tortuose che devono essere spianate? Colui che viene, viene dal cielo, e non ha certamente bisogno di guardare dove mettere i piedi per arrivare. Quei burroni e quei monti sono dentro di noi. Dentro di noi ci sono le voragini, i vuoti di fede e di sapienza, che impediscono la presenza di Dio. E dentro di noi ci sono le montagne di orgoglio e di vanità che non lasciano spazio all’amore di Dio, che è umile e mite.
Ecco il periodo di Avvento, tempo di gioia, ma anche e soprattutto di impegno. Non possiamo vivere come se ogni giorno fosse carnevale, con superficialità e ricerca del divertimento e del piacere. Questo è un burrone da riempire, altrimenti il Signore ci deve lasciare nello scontento tipico di chi continua a divertirsi e non ci può adoperare per la gioia di nessuno nè per la crescita dell’armonia e della pace attorno a noi. Non possiamo poi vivere fermi nell’orgoglio di pensare d’essere a posto, di non aver bisogno di nessuno, nemmeno di dover imparare a pregare nè di dover imparare ad amare. L’orgoglio è una montagna che scoraggia chiunque, Dio compreso, ad aiutarci, una montagna che pesa sulla nostra vita e cancella ogni serenità e ogni gioia.
Giovanni predica la conversione attraverso il battesimo che egli stesso conferisce. Egli predica non ai cosiddetti «grandi» che danno il nome alla storia, ma alla folla anonima di coloro che ammettono di essere peccatori e accorrono nel deserto. Là non ci sono tutti i comfort, là c’è solo il silenzio che permette di ascoltare e di meditare la Parola di Dio e di giungere ad una decisione ferma di amare e seguire il Signore.
San Paolo ci consola con la sua assicurazione di preghiera. La sua preghiera è anzitutto un ringraziamento perché noi siamo già attivi nel regno di Dio. La vita dei cristiani fedeli è un dono per tutti, è cooperazione all’annuncio del vangelo. E poi la sua preghiera è richiesta a Dio per noi del dono del discernimento. Un buon cristiano infatti sa discernere la volontà di Dio dalle superficialità e vanità dell’uomo. Di questo discernimento abbiamo bisogno permanente, perché continuano a cambiare le situazioni in cui viviamo, e ogni giorno quindi abbiamo necessità di luce e chiarezza. Il discernimento è poi necessario in particolare per riuscire a cogliere la presenza di colui che viene, i suoi segni, le sue richieste quotidiane. Alla preghiera di San Paolo ci uniamo anche noi, gli uni per gli altri. Chiediamo al Padre discernimento per vivere la nostra vita nella luce della fede e nell’attesa ardente di Gesù.
Immacolata Concezione della B. V. MARIA
1ª lettura Gn 3,9-15.20 dal Salmo 97 2ª lettura Ef 1,3-6.11-12 Vangelo Lc 1,26-38
Ogni giorno in tutte le parrocchie suonano le campane tre volte. Ci siamo talmente abituati a sentirle che nemmeno vi facciamo più caso. Il significato di quel suono è un richiamo semplice, ma importante, a recitare le tre Ave Maria della preghiera chiamata «Angelus». È la preghiera che traduce in dialogo il vangelo che abbiamo accolto oggi. È tanto importante questa pagina del vangelo che i cristiani, da secoli, hanno voluto scandisse la giornata. E non penso sia inutile raccomandare ai fedeli di continuare la tradizione di recitare quella preghiera sia al mattino, per cominciare gli impegni quotidiani, sia alla sera per affidarsi al riposo notturno, sia pure a mezzogiorno per una breve sosta a ripensare il significato ultimo di ogni fatica.
Questa pagina del vangelo è importante perché narra il fatto che ha cambiato la storia. La nostra storia era ed è la continuazione della paura di Adamo. Abbiamo sentito nella prima lettura che Adamo volle fuggire l’incontro con Dio: ormai pensava che il suo Creatore gli fosse diventato nemico. In effetti era stato lui a considerarlo tale, ad attribuirgli pensieri di gelosia e di menzogna, ma non voleva ammetterlo. Dio, nella sua bontà, lo cercava per risanargli il cuore e risanare il suo rapporto con Eva, l’unica persona con cui avrebbe potuto godere piena comunione; egli, invece, seguendo i propri pensieri, era arrivato alla disobbedienza e l’aveva rovinato. Ormai Eva gli è diventata nemica, e lui si rassegna a riconoscerlo davanti a Dio. Ed ella a sua volta cerca chi condannare per giustificarsi. L’egoismo è entrato a sostituire l’amore. È questa la strada sulla quale noi siamo venuti alla luce. Dentro questi meccanismi ci ritroviamo ancora: siamo tuttora impegnati a disubbidire, ad accusare, a giustificarci, a mescolare tutto con l’egoismo. La nostra storia è la continuazione di quella di Adamo: ce ne accorgiamo ogni giorno e ogni ora.
Dio non si è arreso. Ecco il suo stratagemma: lo abbiamo sentito, vuole mandare il Figlio perché la pienezza del suo amore incontri gli uomini spaventati. Il Figlio verrà come bambino, così gli uomini non avranno paura ad incontrarlo e lasciarsi parlare da lui. Perché il Figlio di Dio possa venire come bambino, ecco, è necessaria una madre, una madre che non abbia paura di Dio. Solo se senza peccato ella non avrà paura di Dio, e non porrà ostacoli alle azioni del suo amore.
Noi la chiamiamo nuova Eva, perché ormai di lei vorremmo esser figli. Siamo figli della prima Eva, lo dobbiamo ammettere, perché in noi fa capolino spesso la paura di Dio, segno della presenza del peccato nel nostro cuore e nelle nostre azioni. Siamo figli di Eva, perché come lei cerchiamo di giustificarci e siamo sempre pronti ad accusare, e roviniamo i nostri rapporti quotidiani. Ma da quando Gesù ha consegnato se stesso al Padre sulla croce, da allora siamo e ci sentiamo figli di Maria. Da allora anche noi proviamo a dire e ripetere: «Eccomi, Signore, sono tuo servo», e ci riusciamo. E così cominciamo il nuovo cammino, quello che si snoda sulla strada dell’amore. Da quando siamo e vogliamo essere figli di Maria, siamo capaci, senza merito, di lasciar perdere molti egoismi cui ci eravamo abituati. Da allora la vita è cambiata, da allora i modi di incontrarci gli uni gli altri sono cambiati, e appare il sorriso.
Anche noi perciò ci uniamo ai nostri fratelli vicini e lontani, anche lontani nei secoli, per dire le lodi di Maria: molti poeti hanno tentato di farlo, imitando i santi che l’hanno seguita nell’offrirsi a Dio per realizzare qualche aspetto della sua volontà. Noi chiamiamo “immacolata” la Madre, Maria, ma non ci è difficile intuire che questo aggettivo è troppo poco. Dire che ella è senza macchia è povera cosa e limitata. Perciò aggiungiamo che ella è “Vergine, Signora, Tuttasanta” (A. Manzoni), “Amor degli angeli, fior delle cose … umil regina, dolce Maria” (N. Tommaseo), “Donna del ciel, Vergine pia, rifugio nostro” (Giovanni Prati), “Regina del dolor” (A. Fogazzaro), “Golfo d’amore, abisso di speranza” (G. Papini), “Tutta pura, tutta bella, tutta buona” (G.B. Montini). E ciascuno di noi trova altri titoli affettuosi per pensare a lei e a lei rivolgersi con piena confidenza per abbandonare nel suo cuore ogni preoccupazione e sofferenza. A lei soprattutto affidiamo il nostro desiderio di essere veri figli per quel Dio che ci è vero Padre!
3ª Domenica di Avvento - C
1ª lettura Sof 3,14-18 * dal Salmo Is 12,2-6 * 2ª lettura Fil 4,4-7 * Vangelo Lc 3,10-18
“Giovanni evangelizzava il popolo”, ci dice San Luca. Il significato di queste parole lo conosciamo: Giovanni dava la buona notizia, l’unica, che sollevava i cuori stanchi e sfiduciati, annunciava un orizzonte di speranza a chi sperimentava solo la sofferenza delle ingiustizie che si moltiplicavano. Egli, anche solo col significato del proprio nome, “Dio è clemente”, assicurava la benevolenza di Dio per i poveri e per quelli che si sapevano soltanto peccatori o addirittura temevano di essere da Dio maledetti. Le folle infatti accorrevano, e con loro anche le persone odiate da tutti, cioè gli incaricati di riscuotere le tasse e i soldati. Oppressi e oppressori, tutti comunque sofferenti, si avvicinano a Giovanni e gli presentano il proprio interrogativo. Egli ha annunciato la vicinanza di colui che deve venire, ed essi chiedono cosa devono fare per essere pronti ad accoglierlo. Le risposte del profeta del deserto sono diverse per ogni categoria, ma propongono lo stesso atteggiamento. Chi vorrà godere della presenza del Messia deve essere libero interiormente dalle ricchezze e attento a chi gli sta attorno. La ricchezza è un padrone cattivo: non bisogna perciò lasciarlo entrare in casa. Distribuire ai poveri, non essere esigenti, sapersi accontentare: questi i consigli che la voce di Giovanni pronuncia senza tentennamenti. E coloro che lo ascoltano percepiscono che tali consigli sono verità, perché Giovanni non è ricco e non desidera nemmeno esserlo, anzi, è un esempio di abbandono alla provvidenza di Dio: lo dimostra il suo menù quotidiano e il guardaroba che porta sempre con sè! La libertà dalle ricchezze procura la libertà di amare. Il secondo consiglio, infatti, risuona tre volte dalle sue labbra ed è appunto questo: essere attenti a chiunque ti cammina a fianco, a chi non ha tunica nè cibo, a chi paga le tasse, a chi si spaventa anche solo al vedere la spada di un soldato. Nessuno deve essere causa di paura, nessuno deve essere causa di sofferenza per nessuno, piuttosto la tua presenza sia sollievo e conforto: allora sei segno della bontà di Dio, sei rivelatore di Dio, suo profeta, con i gesti di misericordia e di bontà che escono dalle tue mani. Tu, quando sei affidato a Dio, diventi tu stesso buona notizia per tutti, fonte di serenità, fonte di speranza e di gioia.
Colui che viene, dice Giovanni parlando del Messia che sta arrivando, “battezzerà in Spirito Santo e fuoco”: egli cambierà l’uomo dal di dentro e gli comunicherà un amore bruciante, che lo renderà simile al roveto contemplato da Mosè nel deserto. Chi viene avvolto dallo Spirito Santo rivelerà la grazia e la bontà di Dio, vivrà una vita sorprendente per tutti, meraviglierà il mondo. Ecco ciò che succede a chi accoglierà il Messia, a chi vivrà con Gesù. Egli non apparterrà più a questo mondo, pur vivendo nel mondo. Nella sua vita la paglia sarà bruciata: ciò che è inutile e fasullo, ciò che è superficiale non troverà più posto nella vita del credente. Le futilità annoiano e ingombrano, svuotano il cuore e svuotano le relazioni tra gli uomini: non sono conseguenza dello Spirito Santo!
Chi aderisce a Gesù comincia a gioire per il cambiamento che sperimenta dentro di sè. Egli potrà seguire davvero l’esortazione del profeta Sofonia: “Rallegrati, grida di gioia”, e il comando dell’apostolo: “Siate sempre lieti”. Molte persone udendo queste parole stralunano gli occhi: com’è possibile rallegrarsi in un mondo come il nostro? Com’è possibile esprimere gioia, quando siamo assediati da innumerevoli angustie causate da situazioni e abitudini, e circondati da persone immerse nella disobbedienza a Dio e ai suoi insegnamenti sapienti? È proprio in questo mondo che noi siamo scelti per essere testimoni della bellezza del Padre e della novità sorprendente del suo amore. Quando qualcuno ci fa soffrire, quando l’ingiustizia ci assale, quando la malattia ci prostra, quando la derisione ci sferza, allora la testimonianza della nostra gioia attira l’attenzione e rende credibile la nostra fede. Non siamo di certo contenti di soffrire, ma siamo gioiosi per la presenza di Gesù. Egli è presente anche quando, e soprattutto quando, veniamo trattati come lui è stato trattato. La gioia proveniente da lui non si smorza mai, anzi, spegne il bruciore del fuoco che si accende contro la nostra fede in lui: “La pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù”.
4ª Domenica di Avvento - C
1ª lettura Mic 5,1-4 * dal Salmo 79 * 2ª lettura Eb 10,5-10 * Vangelo Lc 1,39-48
Domani a mezzanotte celebreremo la venuta del Signore Gesù Cristo nel mondo, in questo nostro mondo. L’evento ci è descritto così dalla lettera agli Ebrei: «Entrando nel mondo, Cristo dice: “Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: Ecco, io vengo - poiché di me sta scritto nel rotolo del libro - per fare, o Dio, la tua volontà”». Queste parole ci aiutano a comprendere in modo più profondo il mistero che avviene, più profondamente che non con l’osservazione delle luci colorate e degli altri addobbi che rallegrano la vista in questi giorni.
Il Figlio di Dio assume un corpo umano per potersi offrire al Padre. Ciò che gli uomini di tutti i tempi e di tutte le religioni hanno sempre offerto e offrono a Dio per domandare e ottenere perdono e redenzione, sono sacrifici animali o altri beni materiali. È comunque sempre qualcosa che sta al di fuori della loro persona, e va ripetuto e rinnovato. Quanto viene offerto non è detto poi che sia sempre gradito a Dio, perché può essere offerto con cuore non pentito o non sincero o non purificato dall’egoismo. Il dono, immenso e inatteso, che Cristo ci fa, è l’essersi reso disponibile a sostituire con la propria vita tutti i sacrifici che gli uomini potrebbero offrire: “Ecco, io vengo per fare, o Dio, la tua volontà”. Gesù è venuto per questo, e lo ha manifestato quando si è immerso nelle acque del Giordano per farsi battezzare da Giovanni; lo ha quindi realizzato accettando la morte sulla croce. In vista di quella morte egli ha preso un corpo, è entrato nell’umanità, s’è fatto uno di noi, come noi.
Il nostro sguardo oggi si posa su colei che è stata tramite di questo disegno sorprendente dell’amore di Dio. Per avere un corpo come noi il Figlio ha avuto bisogno di una madre, proprio come ne abbiamo avuto bisogno noi per venire al mondo. Ella è la prima persona umana che ha udito e ha coscientemente accolto il realizzarsi di questo sorprendente mistero. Ed è la prima e l’unica persona umana che ne è stata lo strumento concreto. Senza di lei persino a Dio sarebbe stato impossibile realizzare il suo progetto. Maria, nella sua umile semplicità si offre al Padre per compiere quanto egli le chiede, fidandosi di lui. È così anch’ella partecipe dell’offerta di sè operata dal Figlio suo. Ella infatti non può comprendere né sapere del tutto cosa comporti il suo assenso. Appena lo ha dato “si alzò e andò in fretta” ad incontrare la parente che l’angelo stesso le aveva indicato come testimone della potenza di Dio. E in casa di Elisabetta Maria incontra e conosce sia la potenza che la tenerezza di Dio. Infatti, come arriva, già il saluto della parente le rivela che è stata preceduta. Chi può aver detto ad Elisabetta che lei porta in grembo una vita, anzi, persino, come le vien detto, “il mio Signore”? Come può Elisabetta sapere della decisione di fede che lei ha preso nel segreto della sua casetta di Nazaret? Sono le sorprese della tenerezza di Dio. A lui obbediscono gli angeli, e lei non può pensare che egli li mandi solo a lei. Ne avrà di certo qualcuno anche per Giuseppe, ne avrà altri da mandare agli uomini che lo ascoltano e lo servono.
La parente, madre pure lei, la proclama beata per la sua fede. E Maria vuole certamente condividere questa beatitudine. La condivide con noi. Voglio anch’io imparare da lei a credere. Voglio che lei sia mia «maestra» nel dire il mio “sì” ad ogni chiamata del Padre, ad ogni compito che lui mi vorrà assegnare, benché io non comprenda come possa realizzarlo, date le mie incapacità.
Incontrando Maria che porta in grembo il Figlio di Dio, cominciamo a comprendere anche i messaggi dei profeti e a godere del loro annuncio. Michea gioisce di poter annunciare che colui che nascerà sarà un pastore, anzi, il pastore del popolo, e non solo del popolo, perché estenderà il beneficio della sua presenza “fino agli estremi confini della terra”. In tal modo può anche solennemente affermare: “Egli stesso sarà la pace”.
Con il “corpo” che il Figlio di Dio assume, la benedizione di Dio per tutti i sofferenti della terra diventa visibile, diventa vicina a loro. Quel corpo è lo stesso che viene a far parte della nostra vita tramite l’Eucaristia, che celebriamo e che mangeremo. Il mistero della fede che viviamo ora ci rende partecipi di quella pace che non è sentimento, ma la nostra stessa vita unita alla sua.
Natale del Signore - C
Notte Isaia 9,1-3.5-6 Sal 95/96 Tito 2,11-14 Luca 2,1-14
Aurora Isaia 62,11-12 Sal 96/97 Tito 3,4-7 Luca 2,15-20
Giorno Isaia 52,7-10 Sal 97/98 Ebrei 1,1-6 Giovanni 1,1-18
Come possiamo celebrare il Natale di Gesù nell’Anno della fede? Lo celebriamo come sempre, perché si tratta di un mistero della nostra fede, e non sarebbe possibile né pensabile altrimenti. D’altro lato possiamo e, forse, dobbiamo cercare di pensarlo in modo nuovo e maggiormente profondo, per non cedere alla superficialità con cui viviamo solitamente anche le realtà non solo più belle, ma pure più significative e ricche di luce della nostra esistenza.
Dimentichiamo per un po’ tutto il sentimentalismo, anche bello, che avvolge queste giornate e i nostri incontri. Guardiamo al nostro Dio, Dio Padre, e tentiamo di afferrare quale sia la volontà che egli esprime inviandoci e donandoci il Bambino di Maria, accolto come figlio da Giuseppe e amato e adorato dai pastori dei dintorni di Betlemme.
Dio Padre, che è amore pieno e perfetto, esprime il suo amore per noi affidandoci il Bambino di Maria. Senza dircelo e senza comandarci nulla, egli ci offre l’occasione di rallegrarci. La nascita di un bambino infatti è motivo di gioia e di speranza. Oggi gioia e speranza sono infinite, perché raggiungono gli uomini di tutto il mondo e di tutti i tempi. Il bambino che nasce oggi è quello atteso - consapevolmente o inconsapevolmente - da tutta l’umanità. I profeti del popolo d’Israele lo hanno annunciato come un grande personaggio che trasformerà la vita di tutti e il modo di vivere di ogni nazione.
A tutt’e tre le Messe ascoltiamo Isaia, che cerca di dirci chi è il grande dono di Dio e qual è e quale sarà il suo influsso sul mondo. Egli è appunto un piccolo bambino, un figlio. La sua responsabilità però è grande, perché divina: avrà potere, sarà consigliere, donerà la pace e ci farà vivere da fratelli, perché sarà capace di vivere la paternità vera. Nessuno avrà più da lamentare ingiustizie o insufficienze, dal momento che avranno accolto la sua presenza. E soprattutto la gioia riempirà e avvolgerà ogni ambiente.
Noi ne siamo già testimoni: parlare di Natale infatti è parlare di gioia, quella più intima e semplice, quella che viene dall’essere amati e dall’amare. Il Natale infatti ci dà la certezza di essere amati da Dio, nonostante quel che noi siamo, così immersi e boccheggianti in ambienti di invidie e di odio. Dio non ci guarda con sospetto e con ira, nonostante lo meritiamo. Mettendoci davanti il Bambino è come ci dicesse: «Mi fido di te, di voi tutti. Siete capaci ancora di amarlo, di accoglierlo, di donargli quanto gli serve per crescere. Amando lui vi unite a me! Egli vi ricompenserà, donandovi poi il suo amore fatto di parole sagge, di consigli preziosi, di attenzioni risanatrici. Lo affido a te, lo affido a voi: accoglietelo e non rendete inutile la sua presenza. Ne siete capaci».
Anche San Paolo nelle Messe della notte e dell’aurora ci aiuta a vedere il mistero del Natale come il momento in cui Dio ci chiama al cambiamento del modo di vivere: da vita dipendente dalla nostra buona volontà - sempre purtroppo debole e malata - ad una vita ricca del suo amore santo e misericordioso. In questa notte e in questo giorno ci rendiamo conto di ricevere tutto da Dio come dono, e di essere comunque pienamente responsabili e impegnati. Senza un nostro impegno sicuro e stabile il dono non servirebbe e non darebbe pienezza di vita e gioia. Per poterci riempire, il dono di Dio deve trovare il nostro cuore e il nostro ambiente vuoto di tutto ciò che potrebbe limitare o impedire il suo influsso. Per poterci rallegrare il bambino deve essere tenuto in braccio e alimentato dal nostro piccolo amore. Un paragone potrebbe aiutarci a comprendere: chi riceve in dono un uccellino in gabbia non sarà rallegrato che pochi giorni dal suo canto, se non si preoccupa di dargli acqua e nutrimento quotidiano.
I vangeli della notte e dell’aurora ci vogliono assimilare ai pastori, lieti e stupiti per la sorpresa divina, e soprattutto a Maria, silenziosa e attenta al canto degli angeli, dal quale coglie la gioia e la conoscenza della volontà del Padre. Il Vangelo della Messa del giorno poi non si rivolge più al nostro sentimento, pur bello e pieno di grazia: ci fa usare tutta la nostra intelligenza e serietà perché dal Bambino impariamo a conoscere la pienezza e la capacità di Dio. Conoscendo Dio, la vita nel mondo diventa luce e amore che trasforma l’umanità! Conoscendo Dio, il mistero del natale influirà sul nostro vivere lungo tutto l’anno: ci metterà ai piedi di Gesù tutte le settimane per ascoltarlo.
Sacra Famiglia - C
1ª lettura 1Sam 1,20-22.24-28 * dal Salmo 83 * 2ª lettura 1Gv 3,1-2.21-24 * Vangelo Lc 2,41-52
In questa domenica la Chiesa ci propone di osservare la famiglia in cui è stato accolto e in cui è cresciuto Gesù. Guardiamo l’ambiente che si è formato attorno a lui, arricchito della sua presenza e dei suoi modi di essere, di pensare e di rapportarsi agli altri. Maria e Giuseppe erano credenti, fedeli a Dio, e aspettavano le sue promesse: erano già formati all’amore e alla pazienza, all’ubbidienza alle consuetudini religiose e alla povertà. Avendo coscienza che il loro figlio era Figlio di Dio, le loro relazioni reciproche non erano condizionate dai sentimenti provati l’uno per l’altro, ma erano certamente fondate nel mistero dell’amore del Padre. I gesti e le parole del Figlio poi hanno rafforzato il legame divino tra i genitori.
Questa famiglia tutta santa in che cosa può esserci di esempio, in che cosa può aiutarci?
Il tempo in cui viviamo non è favorevole all’idea di famiglia. Ci sono infatti segnali aperti di una volontà, che si manifesta a livello internazionale, di distruzione di tutti quei valori cui, dopo secoli di cristianesimo, siamo stati arricchiti e di cui abbiamo fatto un’abitudine fino a qualche anno fa. Ci sono già in cantiere leggi che vieteranno di chiamare i genitori padre e madre. Sembra assurdo: si vuol chiamare genitore uno e genitore due, per preparare il terreno a due genitori uomini o due donne. È solo uno dei segnali tristi, frutto del paganesimo che ritorna per opera di chi ha abbandonato la fede cristiana e la vuole ostacolare. Vivendo in un mondo orientato in tale direzione, il compito dei cristiani si fa sempre più urgente e sempre più chiaro. Noi che siamo di Gesù vogliamo e dobbiamo collaborare con lui a salvare l’umanità. E la salvezza di cui essa ha bisogno è anche questa: ha bisogno di amore, di quell’amore che si trova solo nel cuore di Dio. Senza quest’amore gli uomini si preparano un sacco di sofferenze. Il compito dei cristiani è di formare famiglie sane, sante, nelle quali regni l’amore vero, non quello egoistico della ricerca del proprio piacere, ma quello della ricerca dello sviluppo armonioso delle persone affidate alle proprie cure, siano esse figli o coniuge.
Ecco allora che tenere davanti agli occhi una famiglia santa è non solo utile, ma necessario. Osserviamo come sono improntati i rapporti nella casa di Nazareth. Maria vuole essere tutta di Dio, Giuseppe vuole compiere la volontà del Padre con tutta la misericordia possibile, Gesù tiene fisso il suo pensiero di bambino e di ragazzo alle cose di Dio. La forza che tiene unita e rende santa la famiglia di Nazaret è la presenza di Dio nel cuore di ciascuno di loro. Essi, a loro volta, possono fare riferimento ad altri esempi già presenti nelle sante Scritture. Oggi ne abbiamo udito uno: Anna, la madre di Samuele, ama il marito e ama il figlio, nato e accolto come dono di Dio. Ella non li ama per possederli o per godere di loro: ama il figlio tanto da donarlo a Dio: è cosciente di averlo ricevuto da lui e che quindi deve essere a suo servizio tutta la vita. Ella non conosce un amore più grande per il figlio accolto da Dio. Maria e Giuseppe sono cresciuti meditando esempi come questo. E anche Gesù li ha uditi, tanto che sono diventati nutrimento del suo vivere: egli li prende seriamente e li applica a sè. Infatti, quando viene portato a Gerusalemme per la festa pasquale, egli presume che i suoi ve lo abbiano condotto per rimanervi per sempre e per istruirsi nella Legge di Dio, ascoltando i vari maestri e dottori delle Scritture. Per questo si meraviglia che i genitori lo abbiano cercato e che addirittura siano angosciati per non averlo trovato nella comitiva dei pellegrini galilei. La sua risposta riempie nuovamente il silenzio di Maria e l’obbedienza divina di Giuseppe.
E anche noi da quelle parole di Gesù riceviamo un impulso fortificante. La fede dev’essere o diventare il motore della vita familiare: la fede, perché la fede è sorgente di stabilità, di continuità e soprattutto di verità. Noi crediamo all’amore di Dio, come ci dice oggi san Giovanni, e la fede in quest’amore eterno può essere base sicura per il nostro debole e instabile amore che ci unisce in famiglia.
La continuità delle relazioni, quelle sponsali e quelle parentali, ha bisogno di fedeltà, e la fedeltà è frutto soltanto dello Spirito Santo. Lo Spirito Santo rimane in noi grazie alla preghiera frequente e comunitaria, e non solo grazie alla nostra preghiera personale, debole e malata, ma grazie anche a quella della Chiesa che si riunisce. La preghiera rende visibile o palpabile la presenza di Dio tra i vari componenti nella casa, nella famiglia. E Dio continua a compiere il suo miracolo di rendere stabile e di accrescere la comunione e l’amore reciproco. Se la famiglia è stabile, tutti i membri beneficiano di serenità, e soprattutto i figli vi crescono armoniosamente e maturano seriamente.
Maria Ss.ma, Madre di Dio - C
1ª lettura Nm 6,22-27 * dal Salmo 66 * 2ª lettura Gal 4,4-7 * Vangelo Lc 2,16-21
Gli uomini cominciano a pronunciare il nome “Gesù”. Quel nome viene da Dio, ma sono gli uomini ad attribuirlo a quel Bambino, che oggi comincia a soffrire. Egli viene circonciso, per segnare nella sua carne più intima la sua appartenenza al popolo d’Israele. Portare un nome gli costa già dolore. E così anche lui non si distingue da nessun altro: comincia il suo cammino nel mondo come tutti quei pastori che vengono a vederlo e che con il loro racconto stupiscono Giuseppe e Maria. Maria aggiunge anche queste cose a tutte quelle che già albergano nel suo cuore, e le muove interiormente, le confronta, le percepisce come segni dell’amore e della misericordia e della fedeltà di Dio. Esse riempiono il suo silenzio, anzi, trasformano il suo silenzio in forza di benedizione per tutti.
Maria! È lei la madre di quel piccolo che comincia ad essere al centro dell’attenzione di molti. Ella non si sente importante, ma sa d’esserlo, perché si vede serva di Dio, strumento per realizzare la sua volontà, annunciata da molte antiche profezie. E la volontà di Dio, quella più bella, è che tutte le famiglie della terra siano benedette. Già ad Abramo era stata rivolta questa promessa: oggi si realizza. La benedizione di Dio ha continuato ad essere attesa, desiderata, e anche profeticamente donata da Aronne e dai suoi figli, i sacerdoti. Il nome di Gesù non era ancora conosciuto quando il sacerdote alzava le mani sul popolo per invocare su di esso lo splendore di Dio. Quello splendore del volto di Dio, desiderato e atteso, ora è qui che distribuisce gioia a tutti coloro che lo avvicinano. È il bambino di Maria la benedizione per tutti i popoli. Quando essi lo accoglieranno, egli sarà per loro la fonte della vera pace, farà loro sperimentare la comunione profonda e la fiducia reciproca. Essi diverranno capaci di amare e di ricevere l’amore dei fratelli. I popoli benedetti dalla presenza di Gesù diverranno a loro volta benedizione e fonte di gioia.
Oggi, guardando Maria, ci viene spontaneo pensare a tutti gli uomini del mondo, perché lei, essendo la Madre di Dio, guarda con amore materno anche tutte le creature di Dio. E una madre vuole che tra i propri figli regni sempre armonia e aiuto reciproco. Anche per questo la festa della Maternità divina di Maria ben si accompagna con la celebrazione della giornata della pace. Dalla madre viene la vita, e dalla pace pure scaturisce vita: la Madre e la benedizione per i figli, la pace appunto, riempiono le nostre menti e i nostri cuori nel primo giorno dell’anno. Tutto l’anno vivremo sotto lo sguardo materno di Maria e tutto l’anno coltiveremo il desiderio della pace. Tutto l’anno, invocando il nome di Gesù con lo stesso amore con cui lo pronunciava Maria, saremo portatori di pace.
La presenza quotidiana di Maria nella nostra vita ci aiuterà a sentirci figli di Dio e a comportarci da figli, imparando da Gesù. Di Dio siamo figli: San Paolo ci dice che ne abbiamo già la prova sicura dal fatto che siamo capaci di chiamarlo con quella confidenza, tipica del bambino, che dice semplicemente “papà”. Dicendo così, il bambino dice tutto: dice il grazie, dice il suo piccolo amore, manifesta il desiderio, esclama lo stupore, esprime l’attesa d’essere preso in braccio. Noi ci rivolgiamo con questa espressione a Dio: segno che tra noi e lui si è già stabilito un rapporto intenso, filiale, capace pure di farci considerare fratelli tutti gli altri uomini. In tutto questo la Madre ha il suo ruolo importante e silenzioso. La sua presenza favorisce in noi il nascere e il crescere della confidenza con Dio, perché lei è la Madre dell’unico Figlio di Dio, cui noi ci siamo uniti. Allora anche la nostra presenza nel mondo, nel nostro piccolo mondo, sarà una benedizione di Dio.
Domenica 2ª di Natale - Anno C
Prima lett. Sir 24,1-4.8-12 dal Salmo 147 Sec. lett. Ef 1,3-6.15-18 Vangelo Gv 1,1-18
In questa seconda domenica del tempo di Natale le letture sono piuttosto impegnative. Esse ci portano ad una profonda riflessione sulla presenza di Dio nell’umanità, presenza divenuta concreta e visibile con l’incarnazione del Verbo. Nel brano evangelico Giovanni ci dice che “il Verbo” pose la sua tenda in mezzo a noi, e il libro del Siracide: “Il mio creatore mi fece piantare la tenda e mi disse: Fissa la tenda in Giacobbe e prendi in eredità Israele… Ho officiato nella tenda santa davanti a lui”. Chi parla qui è la Sapienza! Per noi è facile riconoscere in essa il Figlio di Dio, che incarna la Sapienza del Padre, una Sapienza che diviene tutto amore per il suo popolo e per tutta la terra. Questa sapienza, che viene tra gli uomini, è detta Verbo, da Giovanni nel vangelo: «Verbo» è termine latino, ed è stato solo traslitterato in italiano, perché traducendolo semplicemente con «parola» rischierebbe di essere troppo banalizzato. La «Parola» di Dio infatti è tutto il suo amore che si vuole comunicare a noi, e trova non solo forme verbali, ma anche e soprattutto espressioni di vita, perché la sua comunicazione diventi anche comunione. Il termine “Verbo” indica tutto il desiderio e il progetto di amore che Dio vuole mettere in atto per incontrarci, per salvarci, per rallegrarci.
Giovanni ci dice anzitutto che il Verbo era in principio, cioè al fondamento di tutta la creazione e di tutti gli avvenimenti che ci riguardano. Sempre c’è un progetto dell’amore del Padre che vuole essere realizzato. Il suo progetto non può essere statico, perché deve fare i conti con la nostra libertà. Dio non vuole che noi facciamo il male, non vuole che noi pecchiamo, non è questo il suo progetto. Noi invece il male lo facciamo, ed egli deve nuovamente adattare il suo progetto di amore per tutti in modo tale che il nostro male venga colmato e diventi occasione di nuovo amore. Il Verbo è il progetto di amore di Dio che dà forma e significato a tutte le cose, in particolare alla nostra vita. La nostra vita diventa luce quando essa realizza il desiderio del Padre. Questo desiderio deve divenire concreto, ben visibile a noi, che siamo incapaci di vedere null’altro oltre a ciò che sia concreto e palpabile. Ecco perché il Verbo diventa carne, per noi, per poter essere visto, toccato, incontrato, amato, accolto da noi!
Noi siamo poveri e peccatori, siamo tenebra, siamo attaccati alle nostre abitudini e comodità. Percepiamo che il Verbo di Dio in mezzo a noi sconvolge i nostri piani, esige un nostro cambiamento, e perciò siamo tentati di rifiutarlo. Non siamo solo tentati, ma lo rifiutiamo spesso con il nostro comportamento pratico. Noi allontaniamo da noi stessi il progetto d’amore di Dio, allontaniamo da noi il Verbo fatto carne, Gesù! Egli è venuto, non ha atteso che noi aderiamo a lui pienamente per venire.
È venuto, è divenuto carne, rischiando il rifiuto. Il rifiuto c’è stato. Ed il progetto d’amore di Dio si è nuovamente chinato su di noi per trasformare quel rifiuto in passaggio di salvezza. Noi siamo salvati dall’offerta che Gesù ha fatto di sé proprio in occasione di quel rifiuto. Così abbiamo visto la sua gloria, abbiamo visto la pienezza dell’amore dentro la morte, un amore che avvolge i peccatori mentre ne condanna i peccati.
Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto. La sua venuta, nonostante il rifiuto, non è inutile. Alcuni l’hanno accolto, e questi sono divenuti figli di Dio. Questi sono entrati nel progetto d’amore del Padre. Figli di Dio! Siamo anche noi figli di Dio? Quando accogliamo Gesù lo siamo, siamo figli di Dio, portatori cioè della sua immagine, del suo essere amore, della sua luce e della sua pace. Come figli di Dio noi con lui riveliamo il volto del Padre: Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato.
San Paolo ci ripete queste cose con altre parole, e prega perché riceviamo spirito di sapienza e di rivelazione per entrare coscientemente nel programma di Dio, già realizzato in Gesù e continuamente realizzatesi in noi come suoi figli!
Lodiamo la sapienza di Dio, la lodiamo e la desideriamo, l’accogliamo mentre viene a trasformare il mondo, l’accogliamo perché cominci da noi la sua opera rinnovatrice!
Epifania del Signore
1ª lettura Is 60,1-6 * dal Salmo 71 * 2ª lettura Ef 3,2-3.5-6 * Vangelo Mt 2,1-12
Oggi il Signore si manifesta: Dio si manifesta presente in Gesù e Gesù viene manifestato come Dio ai rappresentanti di tutti i popoli! San Paolo ci dice poi che gli è stato rivelato il mistero dell’amore di Dio per tutte le genti, chiamate a formare un solo corpo: quell’amore è divenuto visibile e concreto in Cristo Gesù. Oggi quindi non celebriamo soltanto una visita eccezionale alla grotta di Betlemme: l’arrivo dei Magi infatti è raccontato nel vangelo per il grande significato che quest’evento continua ad avere per noi e per il mondo. Gesù, non importa se ancora bambino, è la luce che “brilla sopra di te”, come dice Isaia profeta, che ancora esclama: “Cammineranno le genti alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere”! Noi accogliamo le parole profetiche e alziamo gli occhi, anzi, ci alziamo in piedi per radunarci a godere della gioia di tutti i popoli. Le parole del profeta eccole, plasticamente presentate da quanto avviene a Gerusalemme: uomini di dignità regale, provenienti da paesi sconosciuti e lontani, da religioni incerte e incomplete, si presentano ad Erode, il re, per cercare “colui che è nato, il re dei Giudei”. Essi hanno saputo questa novità dalle stelle: il creato partecipa alla rivelazione di colui cui deve la sua esistenza e la sua bellezza, però anch’esso ha bisogno che le pagine dei profeti completino la sua conoscenza. Queste pagine le trovano i servitori religiosi del re: ma né essi né lui si impegnano a prenderle sul serio. Essi credono a ciò che è scritto, ma non credono in colui che quelle Pagine sante annunciano; lo percepiscono come nemico, proprio come Adamo aveva percepito il suo creatore, e come altri regnanti e altri servi del tempio percepiranno Gesù, quando sarà davanti a loro, legato e incatenato dalla loro gelosia e dalla loro paura.
I magi accettano di essere soli nella ricerca, non si scoraggiano per il fatto che il re e i sapienti non si affiancano a loro. Dopo le Scritture, come guida, in sintonia con esse, si presenta ancora la stella, ma è soprattutto la gioia del cuore che assicura quegli stranieri che il bambino che trovano, benché le apparenze non siano regali, è degno di possedere non solo i loro tesori, bensì il loro cuore e la vita tutta. La grandissima gioia è premio per coloro che si sono lasciati guidare a Gesù sia dalla propria conoscenza che dalle Scritture profetiche. Essi sono stati umili nell’abbassarsi a chiedere informazioni, e diventeranno ancora più umili, dovendo nascondersi poi ai potenti della terra.
Davanti al Bambino i ricchi personaggi si chinano per riconoscerlo superiore a se stessi. Questo fanno ancora tutti gli scienziati che, come i magi, osservano le piccole e grandi cose dell’universo creato, quando lo fanno non per la propria gloria e non per orgoglio. Così fanno gli uomini veramente grandi, coloro che cercano di porsi a servizio degli uomini. Questo fanno anche i piccoli, che da quel momento piccoli non sono più. Chi adora il Bambino che sta in braccio a Maria, sua madre, infatti, cresce verso la sua statura e diventa un aiuto per coloro che portano l’impronta del male nella propria vita: tristezza e vuoto.
Gli uomini di tutto il mondo sono in attesa della guida della stella e della parola delle Scritture per raggiungere colui che possa riempire il loro desiderio, la loro sete di verità, il loro sogno di amore vero e perfetto. Lo troveranno? Se saranno in grado di camminare insieme a quelli che cercano, se saranno capaci di inchinarsi, se saranno disposti ad aprire i loro scrigni, se non si lasceranno intimorire dai progetti dei potenti, allora sicuramente lo troveranno.
Oggi godiamo, come e con San Paolo, per aver ricevuto, incontrando Gesù, la rivelazione del mistero dell’amore di Dio. È un dono immenso. Godiamo e ringraziamo, e nello stesso tempo lasciamo crescere in noi il desiderio di essere adoperati da Dio stesso per far conoscere il suo mistero a coloro che ancora vivono senza vita, senza speranza, senza conoscere la preziosità della loro stessa esistenza. Questo desiderio ci aiuterà ad aprire la bocca per donare parole di fede a coloro che sono sfiduciati o disorientati. Anche se ci riconosciamo ancora peccatori e incapaci, non dimentichiamo che persino Erode ha dato indicazioni preziose ai magi perché incontrino il Bambino! Anche noi, ancora malvagi e incapaci di fedeltà e di santità, possiamo essere di aiuto a chi, senza conoscerlo, lo sta cercando. E la parola vera che daremo agli altri, risuonerà poi anche in noi per aiutarci a continuare e completare la nostra conversione!
Battesimo del Signore - C
1ª lettura Is 40,1-5.9-11 * dal Salmo 103 * 2ª lettura Tt 2,11-14; 3,4-7 * Vangelo Lc 3,15-16.21-22
Con questa celebrazione concludiamo il tempo del Natale del Signore. Il bambino nato a Betlemme, portato in braccio da Maria, custodito da Giuseppe, adorato dai pastori e dai Magi, osteggiato dalle autorità, ignorato dai capi religiosi, presentato nel tempio e riconosciuto da Simeone e da Anna, proprio lui è la gioia di Dio. Trent’anni dopo, - ma cosa sono per Dio?, - Dio ce lo presenta come il suo Messia, colui di cui egli si compiace e che è destinato quindi a diventare anche nostra gioia. Alla gioia del Padre infatti partecipiamo, per vivere la vita eterna che ci ha preparato!
“Mentre tutto il popolo veniva battezzato”, Gesù era presente, ma non come spettatore. Con tutto il popolo anche lui, solidale con i peccatori, desiderosi di essere pronti alla venuta del Messia, si umilia sotto la mano di Giovanni. Nessuno certamente si sarebbe aspettato che persino il Messia si fosse messo in fila tra quelli che si professavano peccatori. È anche lui peccatore come tutti noi? Egli entra nell’acqua, non perché bisognoso di perdono, bensì per essere insieme a coloro che di lui hanno bisogno. Gesù è bagnato dall’acqua che ha lavato e purifica i peccatori, e in questa condizione viene avvolto dal cielo: in lui terra e cielo si uniscono. Infatti, mentre egli si sofferma in preghiera, dal cielo viene la testimonianza: su di lui scende e si posa la Colomba e di lui parla la Voce. In lui il peccato degli uomini incontra l’amore del Padre. Mistero davvero inaudito: l’innocente ha caricato su di sè la colpa dei colpevoli, cioè il peccato di Adamo e di tutti i suoi figli. Gesù ha caricato su di sè il peccato del popolo e di tutti i popoli, e li porterà poi nel deserto, proprio come l’ariete-agnello che, caricato dei peccati del popolo, veniva mandato a morire con essi e per essi nel deserto. Le conseguenze del peccato di tutti ricadranno su di lui: egli dovrà morire, così che noi siamo sollevati e riceviamo vita nuova e santa.
Proprio in questo momento in maniera visibile scende su di lui lo Spirito: è la consacrazione di Dio. Dio stesso, Dio Padre, lo consacra: realizza così la sua “buona” volontà a favore di tutti gli uomini, di tutti i peccatori. Consacrato da Dio, Gesù è manifestato ora dalla Voce vero sacerdote, profeta e re, come diremo tra poco nella preghiera del prefazio.
È sacerdote che offre il sacrificio gradito e accetto a Dio, sacrificio definitivo che ottiene per sempre la riconciliazione degli uomini. Il suo sacerdozio è quello vero, di cui il sacerdozio del tempio era soltanto figura, ombra e segno. Lo afferma Dio stesso, che accetta il sacrificio con cui Gesù sta cominciando ad offrire se stesso mettendosi tra i peccatori: egli dice “sei il figlio mio, l’amato”, alludendo all’obbedienza di Abramo, che aveva accompagnato il suo figlio amato sul monte per sacrificarlo. Quel gesto di Abramo era stato profezia dell’offerta di se stesso che Gesù, come vero sacerdote, inizia ora per i peccati di tutto il popolo e di tutto il mondo: questa offerta viene accolta dal Padre!
Egli è profeta: ci dona la parola che manifesta i disegni del Padre, anzi è lui stesso Parola, che ci orienta con sicurezza nelle vicende del mondo, per trovare la strada che conduce alla vita vera, all’unione con Dio.
Egli è re: rappresenta tra noi l’autorità di Dio. Noi tutti possiamo e dobbiamo ubbidire a lui, per essere guidati da Dio. Egli sa organizzarci in modo che il nostro amore possa svilupparsi pienamente e renderci soddisfatti della vita, sia della nostra che di quella di tutti!
Il mistero che stiamo celebrando è uno dei momenti più importanti della vita del Signore. Apparentemente egli non fa nulla, soltanto vive l’umiltà. Ed è proprio questa sua umiltà che permette a Dio di dargli ogni potere e di farcelo conoscere pienamente. Egli infatti, mettendosi tra i peccatori pur essendo senza peccato, non è menzognero, bensì manifesta l’amore più vero e perfetto: rivela il suo essere “il Verbo” di Dio in mezzo all’umanità, cioè la Parola amica del Padre che vuole con sè tutti noi.
Questo mistero è mistero di consolazione e di speranza per i peccatori, per noi tutti, che da ora non dobbiamo più temere per i nostri peccati, come afferma solennemente Isaia. È un mistero di salvezza, perché Dio non guarda alle nostre poche e piccole “opere giuste” mescolate a molti peccati, ma alla sua misericordia, come ci dice San Paolo. La misericordia è presente nel Figlio venuto a battezzarci nello Spirito Santo e nel fuoco del suo amore: ci farà cioè persino partecipi della sua vita e della sua missione, un unico grande atto d’amore divino!
2ª Domenica del Tempo Ordinario - C
Ottavario di preghiera per l’Unità dei cristiani (18-25)
1ª lettura Is 62,1-5 * dal Salmo 95 * 2ª lettura 1Cor 12,4-11 * Vangelo Gv 2,1-12
Siamo nella settimana dedicata alla preghiera per l’unità dei cristiani. Questa preghiera l’ha cominciata e ce l’ha insegnata Gesù stesso. Egli sapeva che il maligno avrebbe cercato continuamente di distruggere la sua opera, di rovinare la Chiesa, e sapeva che per rovinarla avrebbe cercato di dividerla. Dividere la Chiesa è facile, come dividere una famiglia: basta far leva sull’invidia, sulla gelosia, sulla permalosità, sull’ambizione e sull’orgoglio. Da questi strumenti o altri simili usati dal maligno, alcuni cristiani purtroppo si sono lasciati ingannare. Ritenendosi più intelligenti della Chiesa oppure più misericordiosi di essa, hanno aggiunto o tolto qualcosa ai contenuti della fede trasmessa e così hanno rovinato la Chiesa, che della fede è la madre. Si sono diffuse così molte divisioni, nell’antichità e recentemente, che hanno seminato nei cuori dei fedeli sentimenti che col vangelo non hanno nulla a che vedere, che non sono portatori di Spirito Santo. Gesù già durante l’ultima Cena ha pregato chiedendo al Padre di concedere che i suoi siano perfetti nell’unità, che i suoi siano uno, dimorando stabilmente nell’unità di Padre e Figlio. Gesù era cosciente che l’unità dei discepoli rende visibile e gustabile sulla terra la vita divina. E quindi che era ed è il miracolo più grande: esso può veramente suscitare la fede in chi ancora non l’ha.
La preghiera di Gesù è stata sempre presente nel cuore degli apostoli. San Paolo l’ha fatta propria, in particolar modo per la comunità dei cristiani di Corinto. In quella città i cristiani erano molto tentati dall’ambizione: ognuno desiderava essere, o essere riconosciuto, importante, grazie ai doni di Dio che aveva ricevuto e che esercitava. Tali doni, invece che essere usati in spirito di umiltà e di servizio, solo per la gloria del Dio dell’amore, per qualcuno erano divenuti causa di invidia, e quindi di discordia e di divisione in gruppi e fazioni. Il dono di Dio veniva usato come strumento dell’azione del divisore, il diavolo.
Da questi vizi e peccati sono scaturite le divisioni che ancora fanno soffrire la Chiesa di Dio e di conseguenza tutta l’umanità, in tal modo privata della testimonianza del vero amore.
Noi partecipiamo sempre, in particolare in questo ottavario dal 18 al 25 gennaio, alla preghiera del Signore e di tutti quelli che sono sensibili alla missione della Chiesa nel mondo. Preghiamo, e pregando cerchiamo pure di non dare spazio, nel rapportarci con gli altri credenti, al divisore. Nei nostri rapporti quotidiani, anche nelle nostre famiglie e nelle parrocchie, teniamo più importante l’armonia e l’unità, più importante delle nostre buone idee e dei nostri risultati. Per questo mettiamo tutto l’impegno ad essere uniti a Gesù, in ogni momento, in ogni occupazione, in ogni programmazione. Uniti a Gesù saremo in grado di mantenere l’unità della famiglia, della parrocchia, del gruppo o comunità di cui facciamo parte. Tutti i doni, di cui noi stessi disponiamo o di cui dispongono i nostri fratelli, vengono dall’unico Dio, dall’unico Spirito e dall’unico Signore Gesù Cristo. A Dio devono dar gloria, a lui ritornare come talenti moltiplicati.
Noi possiamo paragonarci ai servitori che, ubbidienti a Gesù, hanno riempito d’acqua le anfore di pietra a Cana. Quei servitori hanno ascoltato Maria e hanno ubbidito a Gesù. Essi non hanno ricevuto gloria da nessuno, ma sono stati strumento prezioso e necessario per l’opera del Signore. Gesù ha trasformato l’acqua destinata ad essere usata frequentemente per la purificazione dalle impurità legali, in vino eccellente, simbolo della gioia che proviene dall’essere in comunione con tutti: ha così rivelato di essere lui stesso colui che sostituisce la nostra paura di essere continuamente peccatori, bisognosi di purificazione, con la gioia di essere amati da Dio. La vita del cristiano infatti, grazie all’unione con Gesù, è la vita non di chi è sempre attento ad evitare il peccato, ma di chi è sempre proteso ad amare ed essere cercatore di pace e comunione. Ed è la vita di chi ubbidisce e serve, di chi compie la parola del Signore. Vogliamo impostare così la vita: saremo una meraviglia sorprendente per il mondo, che dovrà interrogarsi sul senso della vita e a noi chiederà chi è il nostro Dio, così buono e degno di essere amato e ubbidito. La Chiesa apparirà come la sposa chiamata “Mia gioia” da Dio stesso, come ci ha detto Isaia profeta: sarà essa a porgere continuamente a tutti il vino della gioia pura e vivificante!
3ª Domenica del Tempo Ordinario - C
1ª lettura Ne 8,2-4. 5-6.8-10 * dal Salmo 18 * 2ª lettura 1Cor 12,12-31 * Vangelo Lc 1,1-4; 4,14-21
Abbiamo terminato da due giorni l’ottavario di preghiera per l’Unità dei cristiani, ma la pagina della lettera di San Paolo ai Corinzi ci aiuta ancora a essere saldi nel proposito di rimanere a tutti i costi uniti ai nostri fratelli. Siamo infatti come un corpo solo: ci unisce il Battesimo e lo Spirito che tramite esso abbiamo ricevuto. Le differenze naturali, quali la religione di provenienza o la condizione sociale, non devono più essere considerate. Essere Giudeo o essere di altro popolo, essere nato nella condizione di schiavitù o di libertà, di fronte a Dio cosa significa? Per Dio, nostro Padre, importante è quale spirito ci anima. Se lo Spirito che abita in noi è quello di Gesù, siamo una cosa sola, come un unico corpo formato da molte membra. L’unità delle membra del nostro corpo fisico ci deve far riflettere sul corpo spirituale e ci aiuta ad essere riconoscenti per ognuno dei nostri fratelli nella fede. Nel vivere insieme tra poveri uomini possono nascere gelosie o invidie, antipatie o simpatie, desideri di essere considerati migliori degli altri, ambizioni di vario tipo: sono tutte tentazioni che un credente deve affrontare, ma non seguire. Nel corpo le varie membra servono alla salute e all’azione delle altre; ogni parte del corpo ubbidisce ai comandi che riceve, e ha bisogno delle diverse funzioni e delle diverse capacità delle altre membra.
Gli esempi portati dall’apostolo sono molto facili da comprendere: piede e mano, occhio e orecchio, parti deboli e parti più forti, parti visibili e parti nascoste, tutte devono collaborare per la salute e l’azione dell’intero corpo. Così nella Chiesa ci sono varie mansioni e vari servizi, tutti importanti e tutti necessari, ma nessuno di noi, limitati come siamo, le possiamo possedere o svolgere tutte contemporaneamente. Oltre ad esercitare perciò l’amore che si offre a servire gli altri, dobbiamo esercitare pure l’amore che, con umiltà, accetta di essere servito. In tal modo realizziamo il comando di Gesù: “Amatevi gli uni gli altri”. Nella vita della Chiesa deve essere costante e perseverante il riferimento all’insegnamento di Gesù. Per questo ogni domenica leggiamo la Parola e prestiamo ad essa maggior attenzione che ai nostri sentimenti. Notiamo infatti com’è brutto che un cristiano, appena si presenta l’occasione, per esempio, di sopportare o di perdonare o di vincere una tentazione di impurità o di disonestà, non lo faccia, e si adegui invece al modo di fare del mondo. L’attenzione alla Parola di Gesù cambia la vita, la dovrebbe davvero cambiare!
Oggi la prima lettura e il Vangelo hanno in comune proprio l’attenzione alla Parola di Dio. Esdra, dopo gli anni in cui il popolo era stato in esilio a Babilonia, trovato tra le macerie del tempio il rotolo della Legge, cioè della Parola di Dio, raduna in piazza tutto il popolo, fa erigere un ambone, e fa leggere il Libro dal mattino fino a mezzogiorno. Questa è diventata l’abitudine di tutto il popolo ebraico, per tutti i tempi. Ogni sabato, grandi e piccoli, uomini e donne, si riuniscono ad ascoltare. Era diventata un’abitudine, e anche Gesù la viveva. Egli non la viveva come abitudine, ma come amore a Dio e al popolo. Nutrirsi della Parola di Dio infatti significa prepararsi a diventare un dono di Dio per gli altri. Una persona che ama, non si limita a dare agli altri qualcosa che soddisfi i bisogni del loro corpo, ma si preoccupa di donare anzitutto la sapienza di Dio, l’esempio di obbedienza a lui, la luce che viene dalla sua Parola. Anche noi, infatti, quando ricordiamo i nostri cari defunti, cosa ricordiamo maggiormente? Non è tanto l’aiuto materiale ricevuto da essi, quanto piuttosto quello spirituale, che ci ha aiutati e fatti crescere come persone mature e libere.
La Parola di Dio parla del nostro Signore Gesù Cristo: egli stesso la comprendeva così e così intendeva farla comprendere ai suoi parenti e ai suoi compaesani. Egli stesso è la Parola divenuta carne: nella sua umanità tocchiamo e vediamo i desideri di Dio, la sua sapienza, il suo amore per tutti. Noi perciò ascolteremo sempre la Parola perché diventi esperienza umana attraverso la nostra obbedienza, attraverso il modo con cui la vivremo.
Io desidero che nella mia comunità parrocchiale ci sia qualche membro che rende visibile la Parola di Gesù: ecco, io oggi mi offro a lui per questo. Sono riconoscente a San Luca e agli altri evangelisti, che con cura ci hanno trasmesso l’immagine del Signore Gesù. A lui chiedo di poter dire anche a te: “Oggi si compie in me un aspetto della Scrittura che ascolti”, e per questo mi impegno a realizzare quanto ho imparato da ciò che la Chiesa mi trasmette del suo Signore.
4ª Domenica del Tempo Ordinario - C
in Italia: Giornata della Vita!
1ª lettura Ger 1,4-5.17-19 * dal Salmo 70 * 2ª lettura 1Cor 12,31 - 13,13 * Vangelo Lc 4,21-30
Geremia ci racconta la sua vocazione di profeta del Signore. Dio lo ha chiamato ad un compito difficile, perché ciò che avrebbe dovuto predicare sarebbe stato inviso ai grandi del suo tempo. Essi avrebbero cercato di farlo tacere, arrivando persino a progettare la sua morte violenta. Dio quindi gli ha chiesto di porre in pericolo la vita per la sua Parola, ma nello stesso tempo gli ha assicurato la sua presenza e protezione. Egli, non solo con il messaggio che avrebbe comunicato, ma con tutto quanto sarebbe successo nel suo percorso di predicatore, sarebbe stato profeta di colui che doveva venire, del Messia.
Quanto Dio disse a Geremia, Gesù lo sapeva, e sapeva perciò che per lui le cose non sarebbero andate diversamente. Egli dunque non tergiversa quando a Nazaret presenta la propria missione, non cerca compromessi o accomodamenti per farsi accogliere. Che lo accettino o no, è lui colui di cui parlarono i profeti quando annunciarono la buona notizia. Ed egli perciò assicura che vivrà il suo compito con tutta libertà, con la libertà di Elia e con la libertà di Eliseo. Egli non si lascerà condizionare dal fatto che qualcuno è suo parente ed altri suoi conoscenti fin dall’infanzia: egli sarà obbediente a Dio; potrà quindi succedere che grazie a lui non avvengano prodigi a Nazaret, mentre invece potrebbero avvenire in luoghi lontani, nei luoghi pagani. E infatti la figlia della donna Cananea guarirà mentre egli rientrerà dalla regione di Tiro e Sidone, città pagane, dove, a suo tempo, dal profeta Elia era stata beneficata una povera vedova. E come ad Eliseo era stato mandato un ufficiale nemico per essere risanato dalla lebbra, così, grazie alla fede riposta in lui, a Cafarnao guarirà persino il figlio di un centurione pagano.
Coloro che lo stanno ascoltando a Nazaret non accettano correzioni delle loro aspettative, e nemmeno rimproveri, e soprattutto non accettano di non essere riconosciuti più meritevoli dei pagani, di non essere i suoi preferiti. Il loro amor proprio, la vanagloria e l’ambizione sono così forti da far sì che si sentano offesi e che reagiscano con violenza. Non li sfiora nemmeno il pensiero che la sua parola potrebbe avere autorità divina: lo rifiutano e lo scacciano, tentando persino di ucciderlo.
Che cosa può dire a noi una pagina come questa? Ci può aiutare a guardare a Gesù in modo maturo? Non lo guardiamo come uno venuto soltanto ad accontentarci e a risolvere i nostri problemi, anche se da lui stesso siamo autorizzati a rivolgerci a lui per questi: cercheremo soprattutto di ascoltarlo, di donargli amore piuttosto che chiederglielo (ci ha già preceduti!), cercheremo di godere di tutto ciò che egli fa, per imparare e non per insegnargli. E non avremo gelosia se ci accorgeremo che qualche persona, arrivata dopo di noi alla fede, viene esaudita da lui e ci supera nell’amore!
Dell’amore ci parla oggi San Paolo. Egli usa il termine “carità”, per esprimere quel tipo di amore che proviene dal cuore del Padre e che solo Gesù ha vissuto in modo perfetto, “fino alla fine”. Egli definisce quest’amore “carisma”, e ce lo presenta come “la via più sublime”. Riuscire ad amare come Dio ama è carisma, dono cioè dello Spirito Santo, ed è perciò pure il tracciato segnato per la nostra vita di credenti. Questo è tanto vero che, se la carità non fosse presente nel nostro vivere e nel nostro operare, l’apostolo dice che non servirebbe a nulla riuscire a comunicare con migliaia di persone di altra lingua o altra cultura, non servirebbe a nulla nemmeno quella fede decisa e forte che trasporta le montagne, non servirebbe a nulla tutto il volontariato cui ci sappiamo dedicare anche con evidente sacrificio. La carità è quel carisma che ci rende simili al Figlio di Dio, che ci unisce a lui nella morte e risurrezione, che ci fa essere suoi senza alcun altro pensiero. La carità è un amore che non ci fa mai e poi mai rinunciare alla fede e smettere la speranza: è l’amore non alla nostra ambizione e alla nostra perfezione, ma alla persona del Signore Gesù! È, solo per questo, un amore che dà eternità al comunicare, all’operare meraviglie, allo spendersi per gli altri! È l’amore che ci rende obbedienti a Gesù, anche se, per ciò stesso, incompresi e maltrattati da parenti e conoscenti. Ciò può succedere, che cioè i nostri parenti ci tolgano la stima perché ci vedono vicini a Gesù, e non condividano le nostre scelte, se percepiscono che siamo impegnati con lui. Essere cristiani è essere di Gesù, e non più del nostro paese o del nostro clan familiare. Per essere veri cristiani perciò è sempre necessaria una qualche nostra piccola conversione: coraggio, Gesù merita che la realizziamo!
5ª Domenica del Tempo Ordinario - C
1ª lettura Is 6,1-2.3-8 * dal Salmo 137 * 2ª lettura 1Cor 15,1-11 * Vangelo Lc 5,1-11
Oggi tutte le letture ci parlano della chiamata di Dio: Isaia ci racconta come Dio lo ha incontrato e gli ha chiesto di impegnare per lui la vita, Luca ci riferisce il modo con cui Gesù ha chiamato i suoi primi apostoli, e anche San Paolo, scrivendo ai Corinzi, fa riferimento alla propria vocazione: e ne deduce che, se ha ricevuto da Dio il compito di parlare, chi lo ascolta, non ascolta la voce d’un uomo, ma la volontà di Dio.
A questo punto bisognerebbe che anch’io raccontassi la mia chiamata: tutti quelli infatti che pronunciano la Parola di Dio fanno riferimento al fatto che è stato lui a dare loro l’incarico: chi si sognerebbe di assumersi la responsabilità di aprir bocca per dar voce a Dio, per far risuonare una parola che nessuno è degno di pronunciare?
Le voci dei serafini che proclamano “Santo, santo, santo” spaventano Isaia: egli, per i suoi peccati, si sente indegno persino di ascoltare la lode di Dio. Col carbone ardente uno dei serafini gli tocca la bocca e gli purifica le labbra: adesso egli può addirittura pronunciare le parole di Dio, ed egli si offre: “Eccomi, manda me!”.
Molto diverso è l’ambiente in cui Gesù cerca i discepoli. Non siamo nel luogo sacro del tempio di Gerusalemme, ma sul lago, nell’ambiente profano di un lavoro pesante, faticoso. Gesù insegna alle folle da una barca, e poi, con una pesca che ha del miracoloso, ricompensa chi gli ha prestato quell’insolito pulpito. Il suo proprietario si accorge così che la parola di Gesù è viva, è una parola che ha autorità sulle creature di Dio. Si accorge che Gesù non è un uomo come gli altri: in lui Dio stesso è presente. Simone si sente indegno di stare alla sua presenza, proprio come Isaia si sentiva indegno di udire le voci degli angeli. Non solo si sente indegno, ma confessa d’essere un peccatore: è il peccato che gli impedisce il rapporto sereno con lui. Chi può avere il rimedio al peccato? Gesù non si allarma per la dichiarazione di Simone, anzi. Proprio la manifestazione di umiltà di Simone permette a Gesù di vederlo adatto al suo regno, e glielo propone. Il peccato non ha più conseguenze, non ha più importanza, perché è subentrato l’amore a Gesù. L’amore a Gesù cancella ogni influsso del peccato: chi ama Gesù è arrivato al cuore di Dio! “D’ora in poi sarai pescatore di uomini”: com’è stata la sua vita passata non ha importanza. L’incontro con Gesù, l’essersi accorto che egli è Dio, l’avergli ubbidito, tutto questo ha reso Simon Pietro un uomo nuovo. Egli ora può dimenticare barca, reti e pesci. Non c’è nulla di importante, se non solo Gesù e quanto lui potrà dire o fare o chiedere.
Come Pietro anche Paolo. Nulla interessa quest’uomo più di Gesù e di annunciare il suo nome a tutti. Egli non era solo peccatore, ma addirittura nemico proprio di Gesù, di cui perseguitava i discepoli. Proprio lui dedica tutta la vita ad annunciare tutto ciò che riguarda il Signore, senza vergogna, senza paura e senza risparmiare fatiche. Egli proclama “il Vangelo” cioè tutto quanto riguarda la morte, la sepoltura e la risurrezione di Cristo, di cui hanno parlato le Scritture. Egli è degno di occupare tutta la sua vita, come quella di Pietro e di Andrea, di Giovanni e di Giacomo.
E oggi noi comprendiamo che Gesù è degno di occupare anche la nostra vita. La mia vita deve essere di Gesù, la tua vita deve essere impegnata con lui, non un pochino, ma del tutto. Se ti accontenti che Gesù ti occupi qualche minuto o qualche ora in settimana, lo stai prendendo in giro, e tra qualche minuto lo rinnegherai. Devi farti occupare tutta la vita da lui, tutti i pensieri, tutto l’affetto, tutta la memoria, tutto il tuo tempo libero e anche tutto il tuo tempo occupato. Se egli non è in cima ai tuoi desideri e ai tuoi pensieri, non sei fatto per lui, e la tua vita sarà inutile per il suo Regno, e diventerai infelice, deluso. Sarai forse capace di guadagnare denaro o di divertirti, sarai capace di scherzare e di accontentare l’egoismo di qualcuno o di molti, ma sarai deluso di te stesso. Ricorda chi è Dio per Isaia, chi è Gesù per Pietro, chi è egli per Paolo.
Quando egli è tutto per me, allora egli è la mia gioia, e gioia più grande non c’è!
“Non agli dèi, ma a te voglio cantare, mi prostro verso il tuo tempio santo”!
Domenica 6ª del Tempo Ordinario
1ª lettura Ger 17, 5-8 Salmo 1 2ª lettura 1Corinzi 15, 12. 16-20 Vangelo Luca 6, 17. 20-26
I pensieri proposti dal profeta Geremia ritornano in maniera maggiormente sviluppata nel brano del Vangelo. Geremia usa un termine molto forte per svegliare l’uomo che si adagia e si adatta alle proposte del mondo: «maledetto»! Chi vive fidandosi delle proprie forze, chi vive credendo alla propria intelligenza, chi è sicuro di sé, non ha futuro, va incontro alla sofferenza propria e ne procura agli altri. L’uomo che si fida di sé e delle proposte degli uomini generalmente si affida al proprio egoismo: la vita se ne va da lui! Egli sarà sempre tentato di tenere il Signore lontano: “dal Signore allontana il suo cuore!”. Chi invece si affida a Dio, questi realizza appieno le proprie facoltà, si sentirà realizzato e diventa benedizione per altri.
Sembra che Gesù voglia spiegare queste parole del profeta. Prende con sé gli apostoli, e, alla presenza di una gran folla, in luogo pianeggiante – cioè là dove tutti possono arrivare! (anche allusione alla fine delle fatiche del popolo in cammino) – comincia col proclamare una parola gioiosa: beati! La ripete quattro volte. La rivolge a persone semplici, spesso sofferenti. Beati voi poveri!
Che significa “poveri” in bocca a Gesù? Quando la Bibbia parla di poveri intende coloro che si sono già accorti che la ricchezza non porta felicità e perciò non la cercano più. Essi si sono pure accorti che la ricchezza cambia il cuore dell’uomo, lo rende violento e prepotente: non sono forse i ricchi che tengono schiavi gli altri e opprimono e sfruttano e talvolta si danno a vivere le più aberranti perversioni? Poveri sono coloro che non vogliono diventare né violenti né oppressori: preferiscono mettersi nelle mani di Dio, confidare in lui, affidarsi alla sua sapienza e alla sua volontà!
Beati: queste persone sono in grado di accorgersi della presenza e dell’amore del Padre, questi possono godere le gioie più grandi. Se non arriveranno a goderle qui sulla terra, le godranno certamente là dove sono attesi per l’eternità!
La vita infatti non termina con la morte del nostro corpo. Noi credenti siamo fortunati: abbiamo la speranza, conosciamo le promesse di Dio che saranno mantenute, anzi, sono già realizzate nella vita di Gesù. Egli è risorto. Noi lo crediamo e siamo certi che egli ci ha aperto le porte perché anche noi risorgiamo. S.Paolo dice addirittura che se non credessimo che risorgeremo, la nostra fede non servirebbe a nulla, e i nostri peccati ci peserebbero ancora addosso.
Noi risorgeremo con Gesù Cristo e perciò prendiamo la decisione saggia: restare poveri, nel vero senso della parola! Ci affidiamo a Dio, cerchiamo di dar fiducia a lui e alla sua promessa, non cerchiamo di piacere agli uomini, non coltiviamo le ambizioni fasulle cui il mondo ci trascinerebbe, non cediamo alle tentazioni che ci fanno confidare nelle ricchezze e nei giudizi frivoli di coloro che divertono il mondo con le loro banalità.
Grazie, Padre, del coraggio di Gesù! Egli ci ha presentato la strada sulla quale possiamo incontrare il tuo amore e sulla quale anche noi diventiamo strumento del tuo amore per molti! Grazie per la beatitudine che ci fai già sperimentare oggi accogliendo il tuo Figlio! alleluia!
Domenica 7ª del Tempo Ordinario
1ª lettura 1Samuele 26, 2.7-9.12-113.22-23 salmo 102 2ª lettura 1Cor 15,45-49 Vangelo Luca 6, 27-38
L’episodio narratoci dalla prima lettura è bello e significativo: Davide, pur potendolo, non uccide né offende il re Saul. Questi lo sta cercando per ucciderlo, è suo nemico! Egli lo rispetta, perché è il re, un consacrato del Signore.
Gesù, continuando il discorso delle beatitudini ai discepoli alla presenza della folla, li esorta a comportarsi con tutti come Davide si è comportato col proprio re. L’insegnamento di Gesù non adopera spiegazione: è molto chiaro. Purtroppo noi facciamo grande difficoltà ad accoglierlo, perché riteniamo di doverci difendere, riteniamo di dover ripetere quello che fanno gli altri. Se uno mi offende, penso che devo offenderlo anch’io. Se uno mi tratta male o mi deruba, penso al mio buon nome e alla mia proprietà, invece che alla salvezza di colui che s’è fatto mio nemico.
Il discepolo di Gesù si distingue dagli uomini del mondo. La Parola di Gesù disarma il suo discepolo. L’unica arma che Gesù ci lascia adoperare contro i nostri nemici, contro chi ci offende o ci deruba, è l’amore! Questa è un’arma a doppio taglio: difende noi stessi e il nostro nemico dal Maligno. È l’unico vero nemico dell’uomo.
L’amore del discepolo si sviluppa così: amare, fare del bene, benedire, pregare!
Se non puoi più sorridere con una guancia, perché percossa, puoi continuare a sorridere con l’altra! È quanto hanno fatto molti martiri. Ricordo il B. Giuseppe Freinademetz in Cina: trascinato nel fango, appena lo lasciarono si sedette e si mise a parlare con dolcezza del Vangelo a coloro che lo stavano malmenando, con loro grande stupore!
Il discepolo di Gesù che soffre ingiustizie sa perché le sofferenze si abbattono su di lui: il maligno lo vuol distogliere dall’amore di Dio, dall’amore dei fratelli, dalla propria salvezza. Egli perciò, più astuto del Nemico, si lascia privare del buon nome e delle cose che possiede, ma non si lascia privare del tesoro più prezioso: la fiducia nel Padre, fede che è fonte di amore gratuito! Egli vede che chi lo sta offendendo è dominato dal Nemico; desidera liberarlo. Lo fa offrendo la propria sofferenza a Dio, sorridendo ancora, parlando con amore dell’unico Salvatore!
Così il discepolo di Gesù assomiglia al Padre e ne fa risplendere l’amore! Chi ama solo per restituire un amore già ricevuto, chi dona solo a colui da cui è sicuro di ricevere il contraccambio, non si distingue dai pagani; anch’essi si comportano così. I discepoli di Gesù si distinguono per la qualità del loro amore! Possono farlo perché non tengono conto delle ricchezze, sono poveri; non tengono conto della propria bella figura, sono miti; non contano le proprie lacrime, sono consolati da Dio! Essi sono beati, amici di Dio, sanno di essere amati da lui! Per questo possono amare come Dio ama! Essi possono tenere nel cuore la misericordia, e questa li fa assomigliare al Padre!
San Paolo dice queste cose con parole cui non siamo abituati: parla di uomo terrestre e di uomo celeste! L’uomo terrestre vive con le forze umane, ma non si alza dalla terra, resta impigliato nelle tentazioni dell’egoismo. L’uomo celeste invece è spirituale e viene dal cielo: egli vive alla maniera di Dio, cioè amando per suo amore! Noi, da quando siamo battezzati abbiamo quanto ci è necessario per vivere da uomini celesti, per essere somiglianti al nostro Padre!
Signore Gesù, tu sei vissuto così come hai parlato. Nella tua vita vediamo realizzate tutte le parole che hai pronunciato. Togli da noi la paura di viverle e rendici forti perché la nostra vita diventi manifestazione e rivelazione dell’amore grande del tuo e nostro Padre!
Domenica 8ª del Tempo Ordinario
Prima lettura Siracide 27, 4-7 Salmo 91 Seconda lettura 1Cor 15, 54-58 Vangelo Luca 6, 39-45
Le parole della prima lettura sono semplici e convincenti. L’autore usa immagini facilmente comprensibili per aiutarci ad usare discernimento. Non tutto ciò che appare dentro di noi e non tutto ciò che brilla attorno a noi è dono del Padre: dobbiamo discernere alla luce della Parola di Dio quanto vediamo o udiamo, altrimenti possiamo cadere vittima di inganni e tentazioni.
Gesù sviluppa le stesse immagini e le adopera per i suoi discepoli: un cieco guida un altro cieco, chi ha impedimenti a vedere vuol correggere chi ha solo un piccolo difetto, l’uomo cattivo vuol dar lezione di bontà!
Chi è il cieco? Cieco è colui che non vede Dio, cieco è chi non riconosce Gesù Figlio di Dio, cieco è chi non si è preparato alla scuola del Signore e quindi non conosce la sua volontà! Il discepolo di Gesù deve farsi aiutare da chi si è preparato alla sua scuola! Non basta voler insegnare per essere maestro, bisogna prima prepararsi! Sarai attento a non ascoltare tutti quelli che insegnano: valuta prima se si è formato alla scuola di Gesù!
Tutti abbiamo degli impedimenti a vedere la realtà così come essa è, così come il Padre la vede. Se un fratello lacrima per una pagliuzza e quindi ha bisogno di aiuto, lo possiamo aiutare. Dobbiamo però anzitutto assicurarci di non essere impediti noi stessi da ignoranza della Parola di Dio, da pregiudizi, da uno spirito di superiorità o di insopportazione o di rabbia. E anche noi, nel nostro bisogno, ci faremo aiutare perciò da chi è maturato alla scuola del Signore, da chi è umile e impara dal Vangelo e ci vuol portare a vivere il Vangelo!
Ci sono uomini buoni e uomini cattivi, ci sono uomini che avvicinano a Gesù e uomini che allontanano da lui. Quali ascolteremo? Da quali saremo davvero aiutati? Certamente ascolteremo solo quelli che sono vicini a Gesù: la loro parola sarà d’aiuto anche per noi. Chi sta lontano dal Signore non può darci salvezza, perché l’unico salvatore dato dal Padre è Gesù! Non ci lasceremo ingannare dalle apparenze. Frutti buoni vengono solo da persone buone, e buone sono le persone che appartengono a Gesù e vivono come lui ha insegnato! Anche noi, prima di aiutare gli altri ci rafforzeremo nella fede in Gesù e ci istruiremo con la sua Parola!
Dio ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo! Così afferma solennemente San Paolo! Non avremo paura nemmeno della morte, la quale uccide servendosi del peccato, che è la distanza dal Padre e da Gesù. La morte infatti è resa innocua dalla risurrezione di Gesù. Saldi e irremovibili in Gesù risorto, quindi, anche se costa fatica, fatica che però è salutare! Alleluia!
1ª Domenica di Quaresima - C
1ª lettura Dt 26,4-10 * dal Salmo 90 * 2ª lettura Rm 10,8-13 * Vangelo Lc 4,1-13
Abbiamo iniziato il tempo quaresimale in quest’anno dedicato alla nostra fede, e proprio in questa prima domenica San Paolo ci parla delle sue due componenti che la rendono efficace per la nostra salvezza. Egli si esprime così: “Con il cuore si crede per ottenere la giustizia, e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza”. C’è una fede che occupa il cuore, che rimane nascosta nel nostro intimo, che muove la nostra vita interiore: è la fede in quanto fiducia in quel Dio che ci ama, affidamento alla sua volontà, accoglienza della sua presenza di Padre, desiderio di essere suoi veri figli, obbedienza ai suoi insegnamenti. Questa fede ci fa “ottenere la giustizia”, ci rende cioè graditi al Padre, ma non ancora salvi. Per “avere la salvezza” l’apostolo ci dice che è necessario fare “la professione di fede con la bocca”. Aprire la bocca significa comunicare agli altri, lasciar vedere all’esterno ciò che noi crediamo. Agli altri diciamo che cosa crediamo. Manifestiamo la fede del nostro cuore comunicando quanto sappiamo di Dio, ciò che egli ha fatto, come ci siamo accorti del suo amore per noi, quali sono i misteri da lui realizzati. Quindi la fede è l’affidarci a quel Dio che si è manifestato come Padre e ci ha mandato il Figlio Gesù, credendo a quanto egli ci ha detto e accogliendo quanto ha fatto. In particolare accogliamo la Chiesa come sua opera e sua volontà che ci riguarda da vicino oggi e per tutto il resto della nostra vita. Professare la fede con la bocca significa dichiarare la morte e la risurrezione di Gesù, e quindi la nostra appartenenza a lui, un’appartenenza non astratta, ma concreta, che si realizza nell’essere vivi dentro la sua Chiesa. Dentro la Chiesa del Signore ci alimentiamo dei santi Sacramenti, riceviamo lo Spirito Santo vivendo la comunione con i fratelli, siamo sostenuti dalla speranza della vita eterna. Facendo la professione di fede con la bocca riceviamo la salvezza: quale salvezza? Ci viene quasi spontaneo pensare alla salvezza dopo la morte, che è la nostra situazione definitiva per l’eternità. Pare però che l’apostolo stia pensando ad una salvezza da ricevere e vivere oggi, qui, nel mondo. Qui ora infatti siamo oppressi da molti nemici, condizionati da molti fattori, resi schiavi da molti egoismi, nostri e altrui. Adesso io ho bisogno di essere salvato dall’inganno e dall’inimicizia del mondo, che tenta di impedirmi di essere figlio di Dio, di essere di Gesù, di farmi guidare dallo Spirito Santo.
Se io credo in Dio Padre, e amo Gesù tenendo questa mia fede nascosta nel cuore, le opinioni del mondo continueranno ad avere peso su di me, a spaventarmi e a tenermi oppresso. Nel momento in cui io invece dichiaro apertamente ed esplicitamente la mia appartenenza a Gesù e alla sua Chiesa, allora il mondo comincia a perdere la sua forza sulla mia vita. Possiamo comprendere dall’esempio di Pietro: nel cortile di Caifa non ha avuto il coraggio di dichiararsi di Gesù, e il mondo lo ha vinto. La fede nascosta nel suo cuore non è stata sufficiente a salvarlo.
Il brano del Vangelo rafforza la nostra fede nel suo duplice aspetto. Gesù è guidato dallo Spirito a vivere un’esperienza forte di abbandono al Padre: il tempo che trascorre nel deserto è un tempo di intimità con lui, come dice il profeta Osea: “la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore”. L’amicizia e l’intimità con Dio devono però essere messe alla prova e superare la forza dell’egoismo, della vanagloria e dell’orgoglio. Ed ecco che Gesù, durante la tentazione, dichiara ad alta voce la sua decisione di essere figlio umile e obbediente per il Padre, dichiara il suo attaccamento alla Parola delle Scritture, che non alimentano il sospetto con cui l’uomo vorrebbe inorgoglirsi di fronte al suo creatore. “Non di solo pane vivrà l’uomo”: con questa parola Gesù fa tacere la fame, che gli farebbe pensare che la sua divinità fosse un potere a proprio vantaggio, e non solo amore. “Il Signore tuo Dio adorerai: a lui solo renderai culto”: Gesù vede piccoli i grandi della terra, li vede quali sono in realtà, e vince la soggezione che da essi si sprigiona per assoggettare gli uomini e la loro libertà. “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”: con questa parola Gesù aiuta anche noi a non opporci mai alla sapienza del Padre, a non dubitare di lui, che proprio per amore ci dona i comandamenti, con cui ci libera dal peso del mondo.
Ci avviamo in questa Quaresima rafforzando la nostra fede, piantandola decisi nell’amore del Padre e sostenendola con la vittoria già vissuta da Gesù!
2ª Domenica di Quaresima - C
1ª lettura Gn 15,5-12.17-18 * dal Salmo 26 * 2ª lettura Fil 3,17 - 4,1 * Vangelo Lc 9,28-36
San Paolo non è un illuso: egli vede la difficile situazione del mondo, difficile per chi vuol predicare il vangelo, ma difficile soprattutto per chi vuole viverlo. I cristiani si trovano a vivere in mezzo ai nemici della croce di Cristo. E talora essi stessi cedono alle mode e al pensiero del mondo per diventare di nuovo quel che erano prima di conoscere il Signore. “Il ventre è il loro dio. Si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi e non pensano che alle cose della terra”. Sembra la fotografia di gran parte del nostro mondo, e di gran parte di noi, che non ci lasciamo smuovere: dentro di noi gli interessi materiali non cedono il posto e non cedono il passo agli interessi dello spirito e a quelli del nostro Signore. Il tempo di Quaresima ci offre vari stimoli per cambiare i nostri desideri, i nostri pensieri, per orientarci in modo più deciso verso quel mondo che chiamiamo “i cieli”. I cieli dovrebbero essere un chiodo fisso per il credente. I cieli sono tutto ciò che riguarda la nostra eternità, sono tutto ciò che riguarda Dio, nostro Padre, e tutto ciò che egli realizza per ravvivare e riempire la nostra vita. “La nostra patria è nei cieli” ci dice San Paolo, con l’intento di aiutarci a coltivare non i desideri mondani, ma soltanto quelli che ci santificano e ci rendono belli della bellezza di Dio. La patria nei cieli è quella “terra” che è stata promessa ad Abramo.
Ad Abramo Dio si è presentato come colui che vuole essere presente alla sua vita per renderla felice e trasformarla in benedizione per tutti i popoli. Vuole allearsi con lui, non perché egli, Dio, abbia bisogno d’un uomo, ma perché l’uomo abbia Dio come alleato, e viva quindi sicuro sulla terra, sicuro nel suo orientamento celeste.
I cieli sono presenti sul monte dove Gesù fa salire i tre discepoli, Pietro, Giacomo e Giovanni. Già il fatto che Gesù si metta a pregare lassù, sul monte, li aiuta ad entrare in un mondo diverso da quello che hanno momentaneamente lasciato laggiù, dove sono rimasti gli altri nove loro compagni. Gesù prega, e i tre s’accorgono d’essere altrove, nei cieli appunto. La preghiera ti trasporta altrove, ti fa entrare nel mondo di Dio. E nel mondo di Dio non ci sono solo quelle persone che noi vediamo e tocchiamo normalmente, ma ci sono tutti i viventi, quelli che hanno avuto Dio nella loro vita. Nessuna meraviglia che i tre abbiano percepito la presenza di Mosè e di Elia. Essi sono i profeti di Gesù, profeti con la loro vita e con la loro obbedienza a Dio, profeti di Gesù tramite quanto hanno sofferto per accompagnare il popolo nel cammino di fede. Se c’è Gesù, ci sono anche coloro che ce lo hanno fatto desiderare e conoscere. Così, quando noi preghiamo, sono vicini a noi quei santi che ci hanno introdotti alla fede e ci hanno sostenuto nell’amore a Dio e nell’amore ai fratelli sofferenti. Mosè ed Elia parlano con Gesù di ciò che interessa a lui. La cosa principale è la via che sta percorrendo per arrivare a Gerusalemme e le circostanze che lo introdurranno al cammino del Calvario. Non ci sono argomenti più importanti. È la risposta di Dio alle vere necessità dell’uomo: l’uomo dev’essere liberato dal peccato, cioè dalla ribellione e dalla disubbidienza, e può essere liberato solo se viene percorsa del tutto la strada dell’amore. Gesù la vuole percorrere, e Mosè ed Elia, che l’hanno annunciata, ora, con la loro presenza, lo sostengono nel suo proposito.
Grande sorpresa è la nube, parola sicura per il linguaggio compreso dai discepoli: è la presenza di Dio come guida infallibile. Il dialogo di Gesù con i due testimoni è presenza di Dio, è luce per il prossimo cammino. Altra sorpresa è la voce che indica Gesù come il Figlio, colui che porta sulla terra l’immensità dell’amore del Padre, e il comando che risuona ancora: “Ascoltatelo”! Finora questo comando era riferito all’ascolto del Dio degli eserciti, quel Dio che nessuno può incontrare sulla terra. Adesso proprio Dio dice che il nostro ascolto va rivolto a quell’uomo che prega, a Gesù. Egli ha l’autorità di Dio. Ce l’ha perché sta camminando verso la croce, perché sta portando a compimento l’amore.
In questo mondo, nemico della croce, noi camminiamo abbracciando la croce di Gesù. Nei cieli è la nostra patria, perciò ci orientiamo ad essi porgendo l’orecchio a quel Signore che li ha aperti e nei quali ci aspetta. Non diciamo nulla a nessuno, ma tutti vedranno che noi non apparteniamo a quel mondo che ha il ventre come dio, ma a quel Gesù che è rivelato da Dio come Figlio amato.
3ª Domenica di Quaresima - C
1ª lettura Es 3,1-8.13-15 * dal Salmo 102 * 2ª lettura 1 Cor 10,1-6.10-12 * Vangelo Lc 13,1-9
“Chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere”. Con queste parole San Paolo mette in guardia i cristiani dal pericolo dell’orgoglio spirituale. È un ammonimento serio, perché al popolo d’Israele è successo proprio così. Coloro che ritenevano d’essere salvi, di essere riusciti a meritare da Dio il compimento delle promesse, proprio essi sono stati castigati, perché la loro mente e il loro cuore si sono ribellati. Parlar male di Dio o lamentarsi di quelle persone di cui Dio si serve per donarci i suoi orientamenti, questa è mormorazione, e la mormorazione è ribellione. Il popolo si era rifiutato di obbedire a Mosè, l’uomo che Dio ha chiamato e inviato per fargli da guida. Grazie a lui, ci dice l’apostolo, tutti hanno fatto esperienza di molti prodigi di Dio: la presenza della nube che indicava il cammino, l’attraversare il mare asciutto, il nutrirsi della manna e il dissetarsi con l’acqua scaturita dalla roccia. Aver goduto di questi prodigi non serve a nulla, se poi non ti fidi di Dio, mormori contro di lui e rifiuti le indicazioni di colui che egli ti ha mandato. “Ciò avvenne come esempio per noi”, dice San Paolo. Noi, battezzati, che abbiamo ricevuto lo Spirito Santo, che ci nutriamo del Pane della vita, che godiamo della guida di pastori sapienti, se ci lasciamo andare alla lamentela contro il Signore e alla disubbidienza a chi ci guida, non siamo più in comunione. Le nostre mormorazioni sono segno che ciò che ci interessa non è il Regno di Dio, ma qualche nostro benessere materiale, qualche nostra ambizione o vanagloria. “Per noi è arrivata la fine dei tempi”, dice l’apostolo, e perciò il nostro pensiero e i nostri desideri devono essere fissi alle “cose di lassù”.
Abbiamo bisogno di perfezionare ancora la nostra conversione. Rischiamo di essere noi quel fico cui Gesù accenna nella sua parabola. Un albero che non produce mai frutti è da tagliare. Se qualcuno chiede al padrone di attendere per avere un anno di tempo e di ulteriore fatica… Sì, è Gesù che chiede al Padre di aver pazienza con noi: egli si è impegnato a parlarci e a soffrire e morire per noi. Accogliamo di nutrirci della sua Parola, di alimentarci dei suoi Sacramenti, di deciderci a stare con lui: allora il frutto verrà, perché “chi rimane in me porta molto frutto”!
La nostra morte non sarà una disgrazia, come la morte di coloro che sono stati fatti uccidere da Pilato o sono rimasti schiacciati dalla torre crollata. Se viviamo uniti a Gesù la nostra morte sarà una grazia, un momento forte, un grande atto di amore. Non dobbiamo aver paura delle malattie, nemmeno della persecuzione, perché, vivendo con Gesù, tutta la nostra vita è luce e fonte di pace. Coloro che si sono avvicinati a Gesù per interrogarlo sulle disgrazie accadute in quei giorni si sarebbero aspettati da lui dei giudizi negativi, come se quelle morti fossero state un castigo per chissà quali peccati. È un po’ ciò che succede a noi: quando ci viene annunciata una qualsiasi disgrazia ci viene facilmente da pensare che forse… se la sono meritata. Fosse anche vero, ci dice Gesù, non è questa la conclusione che dobbiamo trarre, non il giudizio sugli altri, ma su noi stessi. Infatti, se la mia vita non è ancorata in Dio tramite il suo unico Mediatore, anche morissi a letto circondato da tanti affetti, la mia morte risulterebbe davvero una disgrazia. In ogni momento il mio pensiero dev’essere rivolto a Gesù, il mio cuore immerso nel suo, le mie azioni offerte a lui. Devo essere sempre pronto a lasciarmi incontrare dal mio Dio, come è stato incontrato Mosè. Quando men se l’aspettava, Dio gli si è fatto presente, gli ha chiesto una disponibilità totale, quella di cambiare mestiere, di cambiar vita, di assumersi delle responsabilità inaspettate e pericolose. Pur opponendo varie resistenze, Mosè ha risposto a Dio e ha iniziato un cammino di conversione radicale di tutta la sua esistenza. Noi lo ammiriamo, ma soprattutto lo osserviamo per tenerci come lui aperti ad un eventuale nostro incontro con quel Dio che vuole continuamente entrare nel mondo per salvarlo.
Chissà che non voglia chiedere anche a me qualche collaborazione? Un giorno mi potrà chiamare in una situazione imprevedibile, come da un roveto che arde senza bruciare, mi potrà far vedere delle circostanze in cui egli vuole che io sia presente per portare la sua parola e i suoi desideri. Vivo umile e sereno, per poter essere trovato in piedi in quel giorno!
4ª Domenica di Quaresima - C
1ª lettura Gs 5,9.10-12 * dal Salmo 33 * 2ª lettura 2Cor 5,17-21 * Vangelo Lc 15,1-3.11-32
San Paolo ci annuncia che siamo stati riconciliati con Dio, ma insiste pure nell’esortarci a lasciarci riconciliare da lui. La riconciliazione è avvenuta “mediante Cristo”, è già a nostra disposizione, ma viene applicata ai singoli credenti quando essi vogliono liberamente accettarla. Gesù Cristo è già diventato “peccato in nostro favore” perché il nostro peccato possa venire allontanato: questo lo deve desiderare ognuno di noi peccatori. Perciò l’apostolo con insistenza dice “lasciatevi riconciliare con Dio”. E ci rivela che la parola della riconciliazione è affidata agli apostoli. La parola che applica a noi la riconciliazione effettuata da Gesù attraverso il suo sangue può venir pronunciata, quando noi lo vogliamo, da chi ne ha la facoltà. Preparandoci alla Pasqua quindi ci avvicineremo a chi può svolgere questo servizio per noi. E la Parola di Dio di questo tempo di Quaresima ci aiuta a riconoscere in quale situazione ci troviamo, a vedere in quale condizioni si trova la nostra relazione col Padre.
Il Vangelo di oggi è un aiuto meraviglioso. Gesù tratteggia nella sua parabola il ritratto dei figli di Dio, così che noi possiamo comprendere come tutti siamo bisognosi di riconciliazione, anzi, di autentica conversione. La conversione è necessaria per chi ritiene di essersi allontanato da Dio e da chi lo rappresenta e lo fa conoscere, ma è pure necessaria per coloro che ritengono di essere sempre stati presenti nella Chiesa e persino molto attivi in essa.
Ripercorriamo la parabola. Gesù ci fa osservare come due figli si comportano nei riguardi del loro padre. Uno rimane sempre in casa con lui e continua la sua attività, il lavoro dei campi. L’altro vuole godere la sua cosiddetta libertà, e per goderla pienamente decide di allontanarsi dal padre pretendendo la parte di eredità che, secondo le leggi, gli spetta. Ognuno può immaginare cosa succede quando un giovane esige libertà e crede di ottenerla allontanandosi, non solo fisicamente, bensì pure affettivamente, dalla propria famiglia. E ognuno di noi sa che cosa può soffrire un padre quando uno dei suoi figli si comporta così. Quel padre sa che un figlio in balia di se stesso percorre strade che lo rovineranno e lo faranno soffrire, perché verrà a trovarsi indifeso in situazioni di continuo pericolo che minacciano la sua vita e la sua pace. Per questo quel padre soffre, pur non perdendo la speranza che quel figlio ritorni. Gesù descrive quel padre come una persona che egli conosce bene: e noi intuiamo che è Dio Padre! È Dio Padre che soffre per ogni uomo che gli ha girato le spalle, che non vuol sapere i suoi pensieri, che rifiuta i suoi insegnamenti come fossero un limite alla libertà. È Dio Padre che soffre per me quando io ritengo che egli non possa più riempire e realizzare la mia vita.
Quel figlio ormai lontano, ormai povero, anzi misero, ridotto in schiavitù, costretto a vivere la sua libertà con gli animali e come loro, nutrito di ciò di cui si nutrono i porci, è perduto per sempre, a meno che la sua memoria non lo riporti ai momenti di gioia pura e vera trascorsi nella casa di suo padre. Ritornerà? Se avrà il coraggio dell’umiltà e del vero amore per la propria vita, ritornerà sui suoi passi. E sarà la gioia del padre suo e di tutta la casa!
L’altro figlio non ha nulla di cui rimproverarsi. Egli ha sempre ubbidito. Pensa quindi di potersi ritenere migliore del fratello, anzi, ritiene di avere il diritto di considerarsi ormai l’unico figlio. Il fratello sbandato non gli interessa e il suo ritorno non lo commuove e non gli dà gioia. Questo figlio fa ancor più soffrire suo padre, che si accorge di aver avuto in casa uno che lo serviva sì, ma non lo amava. Questo figlio non ha imparato dal padre a guidare i propri sentimenti, non ha imparato la compassione, non ha imparato che la vita è fatta per amare, non ha imparato ad essere padre. Questo figlio ha da difendere interessi materiali che sono diventati più importanti delle persone. Suo padre se lo sente nemico, nemico suo e nemico dell’altro figlio.
Forse abbiamo capito: noi ci dobbiamo convertire e la nostra conversione è doppia, perché viviamo gli atteggiamenti di tutt’e due questi figli. Talora abbiamo considerato Dio nemico della nostra libertà, e da lui non abbiamo ancora imparato ad amare i fratelli, non abbiamo imparato ad essere liberi dal nostro egoismo e dai sentimenti di gelosia che ci rendono nemici degli uomini. Convertirsi e riconciliarsi è necessario per noi, non solo per gli altri! Dio ci perdonerà e ci farà gustare i frutti della terra promessa, come al popolo guidato da Giosuè a gesti di fede obbediente. Vivremo la Pasqua di Gesù con cuore convertito, con una gioia nuova e santa!
5ª Domenica di Quaresima - C
1ª lettura Is 43,16-21 * dal Salmo 125 * 2ª lettura Fil 3,8-14 * Vangelo Gv 8,1-11
Scrivendo ai Filippesi, San Paolo ci parla dei suoi passi nella fede. Essa si fonda sulla “conoscenza di Cristo Gesù”, realtà sublime, per la quale “ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura”. Le “cose”, cui si riferisce l’apostolo, sono nientemeno che i meriti ereditati o acquisiti nel giudaismo, la sua origine ebraica, il suo zelo tra i farisei, la sua osservanza della Legge. Queste “cose” che modellavano la sua vita e le davano significato e gratificazione, con l’arrivo di Gesù per lui diventano inutili, anzi, illusorie. Per questo egli le lascia perdere per concentrare tutto il suo impegno a vivere con Gesù, ad ubbidirgli, a glorificarlo. Gesù è il risorto, e, per godere pienamente la grazia e la gioia della sua risurrezione, San Paolo vuole partecipare alle sue sofferenze e persino alla sua morte, soffrendo a causa di lui e per lui, e rinunciando a ciò che rende la nostra vita apprezzata dagli uomini senza fede. Egli sa che questo è un cammino quotidiano, una fatica continua che non gli permetterà mai di dire d’essere arrivato, di essere a posto, di essere perfetto. È un cammino che lo obbliga ad esercitare l’umiltà e ad essere sempre vigilante, proprio come Gesù aveva insegnato. Ormai egli - afferma - è “stato conquistato da Cristo Gesù” e non può e non vuole assolutamente tornare indietro o smettere la corsa iniziata verso il premio promesso da Dio stesso a coloro che amano il Figlio suo.
In tal modo si realizza la profezia di Isaia che abbiamo udito. “Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia”! “Non ricordate più le cose passare, non pensate più alle cose antiche”: incontrare Gesù segna davvero un nuovo inizio, nuovo per tutta la creazione, nuovo per ogni aspetto del nostro vivere e pensare. Quanto sia nuovo e rinnovante l’incontro con Gesù lo comprendiamo dall’episodio che San Giovanni ci racconta nel suo vangelo.
La Legge impone di uccidere una donna. Qualcuno ha visto il suo peccato, un peccato tanto grave che merita la morte. Ogni peccato è in effetti un passo verso la soppressione della vita, è una negazione della nostra felicità e una distruzione della nostra missione sulla terra. Il popolo ebraico era cosciente di questa verità, e quindi ci teneva ad eliminare chi, peccando gravemente, portava alla rovina, non solo se stesso, ma anche tutto il popolo. Coloro che si ritengono incaricati di eseguire la condanna di quella donna vogliono assicurarsi pure l’approvazione del nuovo Rabbi che predica nel tempio a Gerusalemme. Questa è anche un’occasione per valutare il suo insegnamento, che, se non fosse allineato alle loro decisioni, potrebbe essere motivo di condanna anche per lui.
Gesù non guarda né la donna adultera né quegli uomini sapienti e autorevoli. Egli guarda per terra e, col suo dito, scrive sulla polvere. Che significa questo gesto? È questa la sua risposta all’interrogativo degli scribi? Forse qualcuno comprende che Gesù sta pensando a quanto dice il profeta Geremia: “Quanti si allontanano da te saranno scritti nella polvere, perché hanno abbandonato il Signore, fonte di acqua viva” (17,13). Chi si sta allontanando da Dio? Se ne è allontanata la peccatrice lì presente, ma ora se ne stanno allontanando anche gli scribi e farisei mentre accolgono nel cuore spirito di condanna e di accusa, per formulare pensieri e decisioni di morte. Sono essi degni di mettersi al posto di Dio, unico giudice dell’uomo? Sono essi così puri e santi da interpretare le intenzioni di Dio? Se fossero puri e santi mostrerebbero la misericordia e la compassione del Dio dell’amore, di Dio Padre, anche verso quella poveretta che s’è lasciata vincere dalla tentazione. Adesso sono essi che non riescono a vincere il tentatore, l’omicida, che prima fa peccare e poi uccidere. Dopo aver scritto nella polvere, Gesù pronuncia quelle parole, che dovrebbero rimanere sempre in primo piano nei nostri pensieri: “Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei”.
Siamo tutti bisognosi di perdono, tutti cerchiamo misericordia. Da Gesù riceviamo misericordia e salvezza e da lui riceviamo pure la forza per rialzarci e iniziare una nuova fedeltà senza “peccare più”. Davvero Gesù vale più di tutti i nostri meriti e di tutto ciò di cui potremmo vantarci. Con San Paolo e come lui ci protendiamo ad aggrapparci al Signore, morto e risorto, per non lasciarlo mai, anche a costo di perdere la considerazione degli uomini: godremo quella di Dio!
Domenica delle Palme - C
Ingresso Lc 19,28-40 Prima lettura Is 50,4-7 Salmo 21 Seconda lettura Fil 2,6-11 Vangelo Lc 22,4 – 23,46
La gioia dell’ingresso di Gesù alla Città santa, Gerusalemme, prelude la gioia della risurrezione! Noi acclamiamo a Gesù risorto, che con la sua umiltà ha vinto la morte. L’ha vinta rendendola, da salario del peccato qual era, gloria di Dio, manifestazione dell’amore più grande, atto rivelatore dell’amore di Dio Padre. Oggi acclamiamo Gesù portando rami d’ulivo, come la folla dei discepoli mentre scendevano il monte per avvicinarsi alle porte della Città. Qui i farisei dissentono e contestano le lodi e la gioia del popolo. La loro voce è preludio della passione, proclamata per intero nel brano evangelico.
Prima di tutto ci viene narrata la preparazione e il compimento della Cena. Nel dialogo che si svolge tra il Signore e i discepoli non può mancare l’argomento di ciò che sta per avvenire. Essi si rattristano, non appena odono che uno di loro si dissocia dal loro Maestro a tal punto da arrivare a consegnarlo. Era stata messa una taglia sulla testa di Gesù da parte dei capi dei Giudei: è mai possibile che l’amore al denaro superi la fedeltà al Signore? Purtroppo è successo a Giuda; purtroppo succede ancora, e non occorre pensiamo agli altri, perchè noi stessi in qualche occasione, anche piccola, siamo inclini a cedere e a ragionare come se il guadagno fosse la prima cosa cui teniamo, più importante della nostra salute spirituale, più della gloria del nostro Dio!
Durante la Cena il pane e il vino sono al centro dell’attenzione: il Corpo e il Sangue, sangue dell’alleanza “versato per voi”. Questo è il culmine del Vangelo: la buona notizia si realizza: i peccati, che sono la fonte di ogni male nella vita delle singole persone e dell’umanità intera, vengono perdonati. Chi mangia quel Corpo e beve quel Sangue si ritrova immerso in Dio, non conosce più la distanza da lui!
La passione ci fa ripercorrere l’amore di Gesù per i peccatori. Davanti a Caifa e davanti a Pilato, Gesù è l’uomo nuovo, che vive l’amore senza lasciarsi condizionare né dall’odio né dall’ignoranza, nemmeno dalla violenza e neppure dall’ingiustizia umana. E sulla croce egli continua a pregare, rivolgendosi al Padre con tutto il suo dolore e con tutta la sua fiducia. E dalla croce risponde all’amore del ladrone offrendo a lui per primo il Regno. E il pagano centurione per primo arriva alla fede, proclamando: “Veramente quest’uomo era giusto”. Il peccatore e il pagano sono diventati i primi, da ultimi che erano.
Noi ascoltiamo adorando e ringraziando. Gesù è il salvatore: in tutta questa settimana presteremo attenzione alla sua passione, e ci offriremo a portare la nostra croce insieme con lui. Nessuno sceglie la propria croce, anzi, sappiamo che chi rifiuta la propria croce, se ne procura una molto più pesante da portare.
Come le donne, rimaste presenti alla sofferenza e alla morte del Signore, trascorreremo questi giorni in comunione con lui, in particolare vivendo il silenzio e il digiuno in clima di continuo raccoglimento e preghiera. Ci prepariamo così a rinnovare le promesse e la grazia del nostro battesimo e a godere la gioia della Pasqua.
Domenica di Pasqua - C
1ª lettura At 10,34.37-43 * dal Salmo 117 * 2ª lettura Col 3,1-4 * Vangelo Gv 20,1-9 (Vesp. Lc 24,13-35)
“Ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che si manifestasse… a testimoni prescelti da Dio, a noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti”. Così ha parlato Pietro davanti al centurione pagano Cornelio e alla sua casa. Così egli parlava di Gesù: la risurrezione del Signore dai morti è l’evento primo e principale su cui si basa la nostra fede, l’evento da cui scaturisce ogni nostra speranza nei momenti difficili, ogni nostro faticoso gesto di carità. Gesù è stato ucciso, è morto, ma Dio non l’ha lasciato nella morte, lo ha risuscitato. Egli ora è vivo, ed è vivo di una vita che non può più terminare. Sulla sua vita di risorto noi fondiamo il nostro credere. Per questo la nostra fede resiste a tutte le minacce: i martiri, nel momento in cui venivano e vengono perseguitati e uccisi, hanno forza e perseveranza, perché vedono Gesù risorto dai morti. Noi, quando siamo in difficoltà e, con grande fatica, ci apprestiamo ad essere testimoni del vangelo, ricordiamo che Gesù è risorto: nulla ci fermerà.
La risurrezione del Signore è nostra forza ed è nostra gioia. Se Gesù non fosse risorto noi non conosceremmo la gioia: essa è esperienza tipica della vita cristiana. Non c’è gioia vera senza questa certezza. Tutte le nostre esperienze, infatti, orientano il nostro sguardo alle cose che passano, alle realtà materiali che non riescono a sostenere la nostra speranza e nemmeno a rendere duraturo il nostro amore. Noi siamo per natura pessimisti, quindi sempre tristi.
Quando cominciamo a credere che Gesù non è più tra i morti, allora possiamo fissare lo sguardo sulle cose di lassù: e tutte le cose di quaggiù cambiano radicalmente, le vediamo provvisorie, e quindi non così importanti da determinare la vita. Ci accorgiamo che qui sulla terra siamo pellegrini, e che la nostra patria e la nostra stabilità sono presso il Signore Gesù Cristo. Allora le miserie che sono in noi e quelle che ci circondano, anche quando riescono a farci piangere, non riescono a strappare da noi la profonda gioia e la pace, doni del Signore risorto.
Oggi condividiamo la gioia di Gesù e quella di tutti i suoi santi per la vittoria con cui è stata sconfitta la morte con la forza che ha di impaurirci e condizionarci. Cantiamo anche noi la gioia di coloro che ci hanno preceduto e prepariamo quella di coloro che verranno. L’alleluia, canto distribuito lungo tutte le celebrazioni dell’anno, riassume la nostra fede e la nostra speranza e diventa fonte di carità. È il canto che nasce a Pasqua e ci accompagna tutto l’anno per aiutarci ad esprimere la gioia per la presenza con noi di Gesù risorto. Quando siamo nella gioia, dai nostri occhi e dalle nostre mani si sprigiona amore senza difficoltà, anche se richiede fatica esercitarlo. Per questo la Pasqua è la festa più importante, quella che dà origine e significato a tutte le altre feste. Tutti i misteri della fede sono importanti e belli proprio perché Gesù è risorto dai morti. Ma anche tutti i motivi di gioia che ci incontrano nella nostra vita in questo mondo vengono supportati e sublimati dalla gioia della risurrezione del Signore.
Continuamente viviamo perciò illuminati e sostenuti da questa nuova luce. Anche nel nostro cuore può trovare spazio il dubbio, di cui ha sofferto e da cui è stata per un momento indotta in errore Maria di Magdala, e l’incertezza mista a speranza, che ha sorretto la corsa di Pietro e del suo amico. Non ci meravigliamo di essere anche noi uomini come tutti gli altri, inclini all’insicurezza e al dubbio. In questa debolezza Gesù ha trovato i discepoli quando è apparso loro, e in tale debolezza egli incontra anche noi: la certezza della fede non viene dai nostri ragionamenti e dalle nostre esperienze, ma viene da lui, è dono suo, è grazia. La nostra fede si rafforzerà quando, pur con tutti i nostri dubbi, incontreremo il Risorto!
Ci sosteniamo gli uni gli altri, portando le nostre sofferenze come Gesù ha portato la sua croce, sicuri ormai della sua risurrezione. Gli apostoli ce la testimoniano in modo da toglierci ogni incertezza, se possono dirci: “abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti”. Pietro stesso ha continuato la sua fedeltà a Gesù nelle difficoltà e nelle persecuzioni ricordando quei brevi momenti di comunione a tavola con Gesù risorto. Noi ci accostiamo alla stessa tavola: ci nutriamo non solo con lui, ma persino «di lui», “vittima pasquale” offerta perché potessimo avere la vita, e una vita sovrabbondante di gioia!
2ª Domenica di Pasqua - C
della Divina Misericordia o In Albis
1ª lettura At 5,12-16 * dal Salmo 117 * 2ª lettura Ap 1,9-11.12-13.17.19 * Vangelo Gv 20,19-31
“Quando Pietro passava…”: la gente semplice riconosceva nei discepoli di Gesù la presenza del loro Signore, e, come tutti accorrevano per ascoltarlo al suo arrivo nei villaggi della Galilea, adesso tutti accorrono all’arrivo di Pietro a Gerusalemme. La stessa potenza che agiva in Gesù agisce ora al passaggio di Pietro, così che la fede in Gesù viene manifestata con l’avvicinarsi ai suoi apostoli. E la Chiesa aumenta di numero: “venivano aggiunti credenti al Signore, una moltitudine di uomini e di donne”.
Noi leggiamo queste parole con un certo rammarico, perché vediamo che la Chiesa invece oggi diminuisce di numero. Si, sono ormai molti coloro che ritenevamo fedeli, ma possiamo incontrarli solo all’esterno della chiesa, lontano dai luoghi ove la comunità dei credenti si incontra per lodare Dio e ascoltare il Signore. Se ci fermiamo a considerare questa realtà diventiamo tristi, di quella tristezza che non testimonia nulla di Gesù. Noi dobbiamo continuare a considerare la presenza di Gesù nella sua Chiesa. E lui, risorto dai morti, è ancora e sempre fonte di gioia. Ci rallegriamo perché Gesù è con noi, perché è vivo, perché ci vuole incontrare. Noi siamo i testimoni della sua vittoria e della sua vita eterna. Ci rallegriamo come si è rallegrato Giovanni quando, a Patmos, nella tribolazione della persecuzione, ha visto davanti a sè “uno simile a Figlio d’uomo” che lo rassicurava e lo incaricava di una missione per tutti gli altri credenti: quella di scrivere quello che vedeva!
Giovanni ha avuto la visione “nel giorno del Signore”: questo era il giorno in cui tutti i credenti in Gesù si riunivano per celebrare la sua risurrezione spezzando il pane. Ogni giorno ottavo era festa. Il Signore stesso li aveva abituati al ritmo settimanale, quando “otto giorni dopo” apparve agli Undici riuniti. Erano ancora impauriti, e per paura tenevano la porta sbarrata: ma Gesù viveva una vita che non conosce più alcuna limitazione, e perciò si fece presente a porte chiuse. Dopo il saluto di pace a tutti, rivolge lo sguardo a Tommaso. Questi era assente la prima volta, otto giorni prima, quando il Signore aveva consegnato loro il suo stesso mandato e aveva soffiato su di loro il suo Spirito.
Egli, Tommaso, attira lo sguardo del Signore, che lo vede cupo e triste: non aveva creduto alla testimonianza dei Dieci e delle donne, e aveva continuato a pensare che Gesù era morto, ed era tra i morti. Egli è deciso a negare quanto gli altri affermano. Gesù non lascia passare la cosa come nulla fosse, ma si rivolge proprio a lui perché venga a toccarlo. Deve arrivare alla fede anche lui, altrimenti non si può continuare l’incontro, non si può spezzare il Pane, e nessuno può godere fino in fondo quella pace che egli ha annunciato. Tommaso ubbidisce, e, toccando il costato del Signore, esclama con forza la sua nuova fede, che ora gli nasce nel cuore: “Mio Signore e mio Dio!”.
La sua fede è reale, vera, ma non merita un premio. Il premio l’avranno coloro che senza vedere e senza toccare gioiscono per la risurrezione del Signore. Il premio l’avremo noi. Noi non abbiamo né visto né toccato Gesù, ma stiamo credendo in lui, gli diamo fiducia, gli vogliamo ubbidire. Per questo godiamo la sua pace e riceviamo il suo Spirito. Grazie allo Spirito sperimentiamo il perdono dei peccati, di tutti quei peccati che ci tenevano lontano da Dio, ce lo facevano vedere come un nemico, come qualcuno che pretende da noi l’impossibile. Lo Spirito che entra in noi per il soffio di Gesù invece ci permette di contemplare l’amore del Padre, per saperci e sentirci amati, accompagnati, sorretti e guidati da una mano sicura, una mano che diventa salvezza.
L’ombra di Pietro e la fede di Tommaso, vera benché stentata, ci accompagnano durante questa settimana. Crediamo che Gesù è Dio ed è Signore della nostra vita, e perciò ci avviciniamo a chi ne è servo e ministro, per ricevere, tramite il contatto con lui, il frutto della misericordia del Padre. Ogni dono di Dio è in vista di questo: noi siamo peccatori davvero, e anche le nostre malattie sono segno e frutto del nostro peccato. In qualunque modo ci avviciniamo a Gesù, dono del Padre, il peccato sparisce e le malattie s’alleviano fino a guarire. Impariamo quindi oggi dall’umiltà di Tommaso e dalla fede di quelli che portavano gli ammalati ad essere coperti dall’ombra di Pietro! Faremo esperienza della grande misericordia del Padre!
3ª Domenica di Pasqua - C
1ª lettura At 5,27-32.40-41 * dal Salmo 29 * 2ª lettura Ap 5,11-14 * Vangelo Gv 21,1-19
“L'Agnello che è stato immolato è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione”. Queste parole segnano ormai l’eternità. Esse vengono dalla voce degli angeli che continueranno nei secoli a proclamare la vittoria di colui che è risorto dai morti. È risorto dai morti: ciò significa che chiunque lo voglia seguire parteciperà alla sua vittoria dopo essere entrato nella morte. E questo è proprio quanto è successo agli apostoli, che con decisione pronunciavano il nome di Gesù come il Nome che fa risplendere sulla terra l’amore di Dio. Le intimidazioni che essi ricevevano dai capi del popolo non influivano sulla loro certezza d’essere nella verità, perché sicuri che l’obbedienza a Dio ha la precedenza su qualsiasi altra legge. Per questo furono flagellati.
Leggiamo questo tratto della vita degli apostoli non come una storia del passato, ma come profezia per noi. Noi che diciamo la Parola di Dio, una parola che suona disapprovazione di molte decisioni e molti atteggiamenti degli uomini, siamo condannati dall’opinione pubblica. Basterebbe affermare che ogni impropria ricerca del piacere sessuale è egoismo e peccato, e subito arriveranno critiche e condanne. E se l’ideologia che ora si fa strada, chiamata filosofia del genere, continuerà il percorso avviato, tra poco ogni vescovo e sacerdote e catechista fedele, che insegnerà la volontà di Dio, finiranno in prigione. E chi parla contro la pratica dell’aborto, nonostante le gravi sofferenze che esso provoca ai padri e alle madri, viene fatto tacere. Il mondo ha grandi interessi economici da difendere e la felicità e la pace dell’uomo non gli interessa. La Parola di Dio e l’insegnamento di Gesù invece cercano il bene e la gioia di tutti e di ciascuno. Per amore dell’uomo, per amore delle persone che incontro, voglio essere fedele a donare la Parola del Signore, Parola che è vita e luce e gioia per sempre. È la Parola dell’Agnello, che va adorato da tutti noi, come in cielo viene adorato dagli “Anziani”. Adorarlo significa ubbidire a lui, e non più alle opinioni del mondo e nemmeno ai nostri sentimenti e alle nostre idee.
Ubbidire a Gesù! Non è una pazzia, come ci vuol far credere il signore del mondo, il diavolo. Ubbidire a Gesù significa voler dare buon esito a tutto ciò che facciamo, a tutta la nostra esistenza. Ce lo dicono gli apostoli che hanno ubbidito gettando la rete in un momento in cui nessuno più aveva speranza. Oggi anche noi ubbidiamo, ubbidiamo a Gesù facendo quanto ci dice e ci dirà il successore di Pietro. E saremo testimoni dell’agire di Dio.
Oggi il successore di Pietro si chiama Francesco: è a lui che Gesù dice: “Pasci i miei agnelli”. E gli agnelli non debbono lasciarsi pascere da lui? Quel comando di Gesù a papa Francesco riguarda da vicino tutti noi. Egli ama Gesù, gli vuol bene, gli sta vicino, gli cammina dietro. Noi ascoltiamo le stesse domande che il Signore ha rivolto a lui, perché sono domande cui possiamo rispondere anche noi: “Mi ami tu?”. Anzi, dobbiamo rispondere a quelle domande, altrimenti come può affidarci anche solo un piccolo compito nella sua Chiesa? Compito nella Chiesa, affidato a molti, servizio importante perché per le persone coinvolte è decisivo, è il compito di essere genitori. Per i cristiani esso è un compito nella Chiesa, un vero ministero ecclesiale, che li impegna ad educare dei figli di Dio: anche per essere genitori perciò è necessario amare Gesù, e amare soltanto lui. I genitori che amano soltanto Gesù riescono a far sì che i loro figli si sentano veramente amati, e anch’essi genitori allora godono l’uno dell’altro. E così qualunque altro compito nella Chiesa, quello del catechista e quello di chi mette i fiori attorno all’altare, quello ci chi fa giocare i bambini e quello di chi accarezza e serve gli ammalati, sono servizi compiuti in verità se al centro dell’amore c’è Gesù e non i fiori, non i bambini, non gli ammalati. Chi ama Gesù è capace di rendere concreto l’amore di Dio per chiunque, per tutti e per ciascuno. Chi ama Gesù è grande come il papa, e collabora con lui per nutrire gli agnelli di Gesù, per guidare e tener unite le pecore di Gesù, per difenderle dai pericoli e da quel nemico che le vuole sempre disperdere. “Mi ami tu?”, ti vien chiesto oggi. Ami Gesù? Gli ubbidisci? Lo ascolti? Fai quello che dice, anche se non capisci subito tutto quello che ti chiede e perché te lo chiede? Se il tuo amore a Gesù è concreto anche la tua vita è un canto come quello degli angeli, un canto che riempie l’eternità!
4ª Domenica di Pasqua - C
Domenica del buon Pastore
1ª lettura At 13,14.43-52 * dal Salmo 99 * 2ª lettura Ap 7,9.14-17 * Vangelo Gv 10,27-30
Stiamo celebrando per sette settimane la gioia della Chiesa e di tutto il creato per la risurrezione di Gesù. Questa gioia non è condivisa dal mondo, da chi nel mondo è orientato a vivere per se stesso e a coltivare quindi interessi terreni egoistici. La Parola di oggi sembra volerci preavvisare, affinché non ci illudiamo. Tutto ciò che è bello, che dona salvezza e speranza agli uomini, ogni buona notizia che fa gioire i sofferenti, tutto ciò, chissà perché, ha dei nemici. Ci sono varie persone che, nonostante dichiarino di essere amiche di Dio, albergano nel cuore gelosie, invidie, avidità capaci di trasformarsi in cattiveria, odio, perversione. È ciò che sperimentano Paolo e Barnaba arrivando nella città di Antiochia di Pisidia.
In questa bella città sulle montagne all’interno dell’altopiano anatolico essi incontrano i loro fratelli ebrei. Ad essi annunciano che l’amore di Dio si è fatto presente in Gesù, e quelli accolgono con gioia questa bella notizia. Ma ecco che la gelosia dei capi Giudei riesce a suscitare una persecuzione e a far scacciare i due apostoli da quel territorio. Essi, fuggendo, arrivano nell’altra città, Iconio, e qui succederà la stessa cosa.
Sono solo due esempi della storia di tutti gli apostoli e di tutti i discepoli del Signore. Infatti, nelle visioni estatiche di cui è privilegiato nel giorno di domenica, Giovanni vede “quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide con il sangue dell’Agnello”. I loro occhi sono stati asciugati dalle lacrime provocate da grandi persecuzioni, e così possono seguire l’Agnello e celebrarlo eternamente. Essi sono stati uniti al Signore persino nella sofferenza della passione e della morte: ora godono la gloria della sua esaltazione nel cielo di Dio!
Tutti questi credenti, quando hanno deciso di appartenere a Gesù, erano coscienti che sarebbero stati perseguitati. Egli stesso infatti aveva detto che un discepolo non può essere più grande del maestro: “Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi” (Gv 15,20). Anche nel breve vangelo di oggi abbiamo sentito: “Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano”. C’è chi vuole strapparle dalla sua mano? E poi aggiunge, poco dopo: “Nessuno può strapparle dalla mano del Padre”. La mano di Gesù e la mano del Padre è la stessa situazione di sicurezza, di vita, di vero benessere pieno e durevole. Il nemico dell’uomo, che vuole il suo male e la sua morte, continua ad attaccare soprattutto coloro che sono stati salvati. Chi è salvato perciò deve essere sempre attento, vigilante, prudente. Che cosa dovrà fare? Gesù usa l’immagine delle pecore al pascolo. Quelle che ascoltano la voce del pastore e lo seguono non dovranno temere alcun pericolo. Il pastore infatti le protegge, mettendo a repentaglio se stesso pur di salvare le pecore.
Vuoi continuare a godere la tua salvezza? Vuoi mettere al sicuro la tua vita? Vuoi che ogni tua fatica non sia inutile? Ascolta il tuo pastore, continua a seguirlo!
L’immagine di Gesù quale pastore segna ogni anno questa quarta domenica di Pasqua. E in questa domenica ci viene proposto di pregare intensamente per uno scopo particolare. Nella Chiesa Gesù ha posto alcuni “quali pastori e maestri” per condurre tutti i credenti all’unico “pastore e guardiano delle nostre anime”, come dice S.Pietro (1Pt 2,25). La nostra preghiera si rivolge al Padre perché ci doni sempre, anche nel nostro tempo, coloro che vivono il ministero di pastore con fedeltà, perché possiamo essere guidati tutti con fedeltà e sicurezza a quella vita eterna che Gesù ci dona quando stiamo con lui. Proprio Gesù ha detto ai suoi apostoli di pregare “perché il padrone della messe mandi operai nella sua messe”. Gli operai cui pensava Gesù sono i portatori di diversi carismi nella Chiesa, ma tra loro certamente ci sono anche quelli chiamati ad essere pastori. Preghiamo perciò con molta fiducia: il Padre ascolta la nostra obbedienza a Gesù. Obbedienti al Figlio di Dio chiediamo dunque santi e numerosi pastori: saremo ascoltati, saremo esauditi. Nella Chiesa non mancherà chi vive questo carisma tanto importante per la salvezza dei singoli fedeli e per l’armonia dell’intero Corpo di Cristo e per la pace e la speranza di tutti. Rendiamo la nostra preghiera più vera offrendo la fatica e la sofferenza del seguire Gesù in un mondo a lui ostile. Il nostro canto dell’alleluia sarà ancora più gioioso, in accordo con quello della moltitudine di quelli che Giovanni vide “avvolti in vesti candide”!
5ª Domenica di Pasqua - C
1ª lettura At 14,21-27 * dal Salmo 144 * 2ª lettura Ap 21,1-5 * Vangelo Gv 13,31-33.34-35
La prima lettura racconta la seconda parte del primo viaggio affrontato dai santi Paolo e Barnaba. Essi, dopo aver evangelizzato senza difficoltà la città di Derbe, ritornano in quelle città dove erano stati perseguitati. Qui non ripetono la predicazione a tutti, ma si dedicano alle piccole comunità già iniziate, per confermarle nella fede e scegliere in esse le persone adatte a presiederle. Così a Listra, a Iconio e ad Antiochia di Pisidia. Le parole che San Luca riferisce essere state ripetutamente rivolte ai nuovi cristiani dai due apostoli sono queste: “…dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni”! Tutti infatti ricordavano le difficoltà che essi avevano incontrato, la fuga frettolosa, e addirittura la lapidazione di cui è stato vittima San Paolo a Listra.
Molte tribolazioni attendono coloro che seguono Gesù. Egli è sempre il crocifisso, è sempre segno contraddetto, sempre incontra nemici, per amarli e per cui continuare a soffrire e morire, tramite il suo Corpo, che è la Chiesa. I discepoli del Signore a causa di lui riempiono la propria vita di gioia, ma continuano pure a versare le sue lacrime. Esse saranno asciugate quando la morte stessa sarà vinta e non li potrà più toccare. Giovanni, durante la sua visione domenicale, ode risuonare l’annuncio: “Non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate”. Saremo spettatori di novità, di vera novità. Il mondo che ora vediamo volerci sopraffare non ci farà più paura, anzi, non ci sarà più.
La novità la iniziamo già qui, vivendo, in questo mondo sofferente, la novità della Parola di Gesù: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri”.
Vivendo il “comandamento nuovo” il mondo inizia il cambiamento. Null’altro può dare al mondo un altro volto. Noi ce ne rendiamo conto entrando in qualche famiglia o in qualche ambiente dove questa Parola di Gesù diventa abitudine quotidiana. Dove due o tre persone si accolgono e si servono per amore di Gesù, là il mondo è nuovo, anzi, là il mondo non è più mondo, ma è cielo nuovo e terra nuova.
Gesù ha dato quel comando poco prima di lasciare questo mondo, lo ha dato mentre già offriva se stesso in sacrificio. Questo è il prezzo che ci ottiene la grazia di metterlo in pratica. Cosa significa amarci gli uni gli altri? Significa vedere il fratello come figlio di Dio, e quindi degno di tutto il mio amore. Vedere il fratello come figlio di Dio mi obbliga ad accettare anche i suoi gesti di amore, ad accettare il sacrificio che egli compie per aiutarmi, per correggermi, per sostenermi. Quando mi lascio amare dal fratello vedo lui superiore a me stesso, lo vedo come strumento nelle mani del Padre, che si serve di lui per amare me. Questa umiltà concreta completa il comandamento dell’amore del prossimo.
Impegnandomi solo ad amare il prossimo, rischio di inorgoglirmi, perché è facile ritenermi capace di amare, e quindi di essere superiore a colui o coloro che amo. Se invece mi lascio amare, accettando che l’altro soffra e faccia fatica per me, questa umiltà mi apre il cuore, e nasce comunione e reciproca pace. Per questo noi stessi ci accorgiamo che, amandoci gli uni gli altri, cambia il mondo in cui viviamo.
Quando ci limitiamo ad amare i fratelli, il mondo rimane tale quale. Noi stessi infatti rimaniamo grandi, in pericolo d’insuperbirci e poi di pretendere adeguata ricompensa o gratificazione. Quando ci lasciamo amare, accettando l’amore del fratello, il mondo dentro di noi è vinto e attorno a noi cambiato. È proprio necessario questo comandamento di Gesù, è meraviglioso e sapiente, perché ricchi di pace e di gioia i suoi effetti, quando è accolto e ubbidito!
Il Signore stesso in noi è l’energia che ci permette di viverlo. E chi lo vive è chiaramente distinguibile e riconoscibile come discepolo di Gesù, l’unico che ha dato un comando simile. Vivendo queste sue parole la nostra vita diventa gloria di Dio, cioè manifestazione della sua bellezza, della sua bontà, della sua verità. Nello stesso tempo, come dice Gesù, mentre noi diamo a lui modo di manifestare che la sua verità è l’amore, egli glorifica noi, rende manifesto a tutti che noi siamo suoi figli veri! Tutto questo, come già abbiamo sentito da San Paolo, attraversando “grandi tribolazioni”: esse saranno per noi partecipazione alla passione di Gesù, e quindi garanzia di gioia e gloria eterne, garanzia di partecipare alla sua esaltazione!
6ª Domenica di Pasqua - C
1ª lettura At 15,1-2.22-29 * dal Salmo 65 * 2ª lettura Ap 21,10-14.22-23 * Vangelo Gv 14,23-29
“Ti lodino i popoli, o Dio, ti lodino i popoli tutti”! Così canta il salmo di risposta alla lettura che ci annuncia la decisione dello Spirito Santo e degli Apostoli di ammettere nella Chiesa i pagani, grazie alla loro fede in Gesù, senza obbligarli ad osservare le leggi e le norme dei Giudei. Queste norme prescrivevano osservanze esteriori, come la circoncisione, la purificazione esteriore del corpo, il lavaggio di oggetti vari, l’astenersi da alcuni cibi. La salvezza infatti non viene a noi dall’essere riusciti a fare tutti i gesti esteriori previsti dalla Legge di Mosè, ma viene dal Salvatore, colui che Mosè ha preannunciato. I vari riti previsti da quella legge dovevano preparare il popolo a dar retta a colui cui va l’obbedienza di tutti i popoli! Gli apostoli, presenti a Gerusalemme, scrivono una lettera ai credenti di Antiochia: è il loro primo scritto, con il quale dichiarano che chi aderisce a Gesù è libero da quelle osservanze che fanno somigliare la fede alla schiavitù. Ovviamente essi non esimono nessuno dall’obbedienza ai dieci comandamenti! È bello e importante vedere come presentano la loro decisione: “È parso bene, allo Spirito Santo e a noi…”! Essi sanno d’aver ricevuto da Gesù il suo soffio, lo Spirito di Dio, e che questo Spirito li rende capaci di vedere ciò che vede il Padre, di amare come ama Gesù, e quindi di decidere il da farsi nelle molteplici situazioni della vita. Quanto hanno deciso non era l’opinione dell’uno o dell’altro, ma un sentire comune, proveniente dalla fedeltà di tutti al Signore!
Degli apostoli parla ancora l’Apocalisse, l’ultimo libro del Nuovo Testamento: i loro nomi sono scritti sui dodici basamenti su cui poggiano le mura della città santa, la Gerusalemme che scende dal cielo. Essa è chiaramente immagine della Chiesa, illuminata dalla gloria di Dio e dalla lampada che è l’Agnello. Il fatto che i basamenti portino il nome degli apostoli è significativo: la città preparata da Dio per gli uomini è quella che ha come fondamenta i Dodici scelti da Gesù. Essi sostengono la Chiesa con la testimonianza e con gli insegnamenti. Non è possibile quindi immaginare di essere in comunione con Dio senza di essi. La città che viene dal cielo poi è una vera città, non un luogo aperto. Essa ha una cinta che la difende bene e apre dodici porte, tre per ogni lato. Anche sulle porte è scritto un nome, quello delle dodici tribù d’Israele; ognuna di esse è custodita da angeli. Questa immagine ci fa intendere che la sicurezza offerta dalle mura della città prevede che si debba entrarvi passando per l’esame che gli angeli, suoi custodi, devono eseguire: essi osserveranno se chi si avvicina fa parte del popolo di Dio e se è in comunione con gli apostoli. Se vuoi godere dei benefici della Chiesa ti devi lasciar guidare, con umiltà e obbedienza!
Il vangelo infine ci trasmette una conversazione che Gesù tenne proprio con i suoi apostoli: sono parole importanti, che rivelano non solo chi sono i Dodici in rapporto al Signore, ma aiutano anche noi a perfezionare la nostra relazione con lui. Non ci meraviglia il fatto che Gesù adoperi ancora il termine amare. Egli è Dio, è generato da quel Dio che è amore, e perciò chiunque voglia avvicinarlo dovrà percorrere la strada dell’amore. E per primi i suoi apostoli. “Chi mi ama” e “chi non mi ama” sono le parole iniziali dei discorsi di Gesù. Sull’amore si gioca il nostro rapporto con lui, non su altre capacità, doti, qualità o condizioni. L’amare poi avviene tramite l’ascolto e l’obbedienza. “Se uno mi ama, osserverà la mia Parola” e “Chi non mi ama, non osserva le mie parole”. Egli non ci dice nulla di nuovo: lo sappiamo anche noi che il primo passo dell’amore è ascoltare. Quel ragazzo, che non ascolta la sua ragazza, può fare molte dichiarazioni di amore, ma lei percepisce che egli non la ama, la vuol solo possedere. L’amore non è diverso quando lo indirizziamo a Dio. Glielo dimostriamo quando lo ascoltiamo e mettiamo in pratica ciò che egli ci consiglia di fare. Egli ci soccorre inviandoci il suo Spirito, lo Spirito chiamato Paràclito. Paràclito è un termine greco che riassume i vari modi con cui egli ci assiste: se siamo tristi ci consola, se accusati ci difende, se svogliati ci esorta, se dimenticoni ci suggerisce, se disprezzati ci rinfranca, se dubbiosi ci rassicura. Gesù chiede e ottiene dal Padre per noi questo dono meraviglioso: ricevutolo, non ci sentiremo mai abbandonati, mai soli. Invasi dallo Spirito formiamo la Chiesa, che conta sulla nostra presenza: essa è la città dalle salde fondamenta, sicura e sempre pronta ad accogliere chiunque abbia bisogno di vita, di pace, di comunione fraterna. Saremo noi stessi poi ad intonare il canto della lode a Dio, quella lode cui tutti i popoli potranno unirsi!
Ascensione del Signore - C
1ª lettura At 1,1-11 * dal Salmo 46 * 2ª lettura Eb 9,24-28; 10,19-23 * Vangelo Lc 24,46-53
“Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d'uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso”: così inizia la pagina proclamata dalla lettera agli Ebrei. Con queste parole Cristo Gesù viene riconosciuto il vero sacerdote, di cui i sacerdoti dell’Antica Alleanza erano solo immagine e profezia. Egli è il vero sacerdote, mediatore tra Dio e noi, peccatori. Dio ci parla e ci dona le sue grazie attraverso di lui e noi attraverso di lui ci offriamo al Padre. Egli non entra nel santuario per portare il sangue di animali sacrificati, come il sommo sacerdote del tempio, ma oggi è arrivato alla presenza di Dio stesso col proprio sangue. In tal modo egli annulla il nostro peccato. Per noi peccatori si è sacrificato egli stesso. E così, continua il nostro testo, egli ha inaugurato per noi “una via nuova e vivente” per arrivare a Dio. Gesù Cristo morto e risorto è la via: per noi, lontani dal Padre, c’è la possibilità di tornare a lui e ricuperare l’amicizia già goduta all’inizio da Adamo. Possiamo di nuovo sperare, guardare al futuro, certi che la nostra vita non va perduta, anzi, diventa preziosa per l’eternità.
Lo stesso Gesù, quando appare ai suoi discepoli risorto, li rassicura: saranno essi a predicare “a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati”. Potranno farlo perché egli è morto e perché è risorto dai morti. La risurrezione infatti dà alla sua morte il valore di un’offerta accolta da Dio, con valore eterno e perfetto. Tutti i popoli, e non solo il popolo ebraico, potranno godere la possibilità di convertirsi e quindi di essere perdonati. Tutti i popoli, qualsiasi religione vivano, potranno conoscere il Salvatore e godere della sua salvezza. Come faranno i discepoli a predicare il perdono dei peccati, se essi stessi sono peccatori? Per questo Gesù dice: “Io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso”. Lo Spirito Santo li renderà capaci di superare se stessi. Sarà lui che infonderà loro coraggio e verità e sarà lo stesso Spirito che darà, a chi ascolta, la luce per accogliere l’annuncio come buona notizia, come vangelo per la propria vita.
Il compito che gli apostoli ricevono è reso stabile dal fatto che segue: Gesù “si staccò da loro e veniva portato su, in cielo”. Egli non è più visibile: da ora in poi la loro vita è illuminata soltanto dalle sue parole. Essi aspettano lo Spirito come una forza che agirà in loro, e poi faranno veramente quanto egli ha detto: predicheranno “la conversione e il perdono dei peccati”. Sapendo che Gesù è in cielo, che è accanto al Padre, seduto alla sua destra con il potere di Dio, essi non avranno timore alcuno ad ubbidirgli: ubbidirgli è la cosa più vera e santa che possano fare! Noi ci uniamo a loro. Se Gesù dai morti è risorto e dalla terra è passato al cielo, possiamo davvero vivere abbandonati alle sue parole. Egli non le lascia senza effetto, e non permette che resti ingannato chi le converte in pensiero e azione.
Il mistero di oggi è sorprendente e per noi quasi incomprensibile, ma solo perché non troviamo le parole adatte a descriverlo. Gesù sale al cielo, siede alla destra del Padre, è giudice di tutti. Queste sono immagini facili a capirsi, anche se ci lasciano perplessi. Ciò che deve rimanere dopo aver detto queste cose è che l’autorità di Gesù è quella di Dio, e quindi possiamo e dobbiamo fidarci di quanto ci ha detto e affidarci a lui con decisione. Inoltre possiamo comprendere che l’unica cosa importante, l’amore più vero e più significativo che possiamo avere per gli altri, tutti gli altri, è aiutarli a conoscere e incontrare Gesù, aiutarli a vivere le sue parole. Sono esse che rendono la vita preziosa, esse che danno il desiderio di vivere e riempiono di significato tutti i minuti della giornata. Gesù è in cielo: per questo quando pensiamo a lui e lo ascoltiamo, diventiamo celesti. Ci accorgiamo della bellezza e della bontà delle persone che amano Gesù, che lo conoscono e vivono con lui. Quando siamo uniti a Gesù noi stessi siamo più belli, più buoni, più comprensivi, e alla nostra mente affiorano pensieri sapienti e misericordiosi. Egli è in cielo, ma non lontano. Egli è lassù per rendere noi celesti ogni volta che pensiamo a lui con amore e dedizione generosa. È asceso al cielo per portare con sè noi tutti, me e te, affinché qui sulla terra ci sia un po’ di cielo, anzi, tutto il nostro ambiente risplenda della luce e della pace che circondano l’amore del Padre!
Pentecoste - C
1ª lettura At 2,1-11 * dal Salmo 103 * 2ª lettura Rm 8,8-17 * Vangelo Gv 14,15-16.23-26
Gli apostoli “si trovavano tutti insieme nello stesso luogo”. Questo particolare dell’unità è ben sottolineato da Luca perché importante. L’essere uniti e l’esserci tutti è già segno della presenza e dell’opera dello Spirito di Dio, che viene nel mondo proprio per unire ciò che è diviso. Nel mondo regna ovunque la divisione, frutto dell’egoismo presente nel cuore di ogni uomo, frutto della distanza da Dio, sia quella liberamente voluta che quella ereditata dalla famiglia o dalla società. La divisione tra gli uomini è entrata con il primo peccato e si approfondisce ogni volta che il peccato si ripete. Questa divisione, che coinvolge tutta la società, è diventata evidente a Babele: qui gli uomini si industriavano a costruire una civiltà senza Dio, convincendosi di essere autonomi e capaci di tutto pur prescindendo da lui. Ed è stata la fine di ogni benessere umano e terreno, la fine di ogni comunione e collaborazione e di ogni solidarietà. Non pensiamo a diecimila anni fa, perché abbiamo sotto gli occhi quanto avviene oggi in Europa e nel resto del mondo. I nostri «grandi» vogliono unire il mondo, e vogliono farlo senza Dio, cioè senza il suo amore; per farlo, i più ricchi, servi del denaro, di mammona, si accordano sottomettendo gli altri in una sorta di schiavitù, senza che questi se ne accorgano, o facendo credere che non sia così.
L’amore di Dio per gli uomini interviene, grazie a Gesù, inviando nel mondo il suo Spirito Santo: questi cambia dall’interno il cuore dell’uomo, e quindi inizia a rinnovare la faccia della terra. Lo Spirito Santo ha bisogno di cuori che si lascino riempire e possedere da lui: comincia dagli apostoli di Gesù!
Gli apostoli si ritrovano insieme nel nome del Signore, in obbedienza a lui. Questa obbedienza è già opera dello Spirito Santo, ed è la condizione perché egli possa venire ad occupare ancora più spazio nella loro vita fino a riempirli di gioia, di coraggio, di doni per l’evangelizzazione del mondo. Inizia così il cambiamento di tutta l’umanità: coloro che odono il nome di Gesù, che ne sentono annunciare la morte e risurrezione, che vedono l’amore per lui nel coraggio dei Dodici e nei loro occhi, ecco, tutti costoro possono aprire la propria vita a ricevere il dono che viene dall’Alto. Gesù ce lo presenta col titolo di “Paraclito”: è un termine che non si può tradurre con una sola parola. Paraclito è colui che assiste l’uomo in ogni situazione, per consolarlo o per difenderlo, per sostenerlo o per incoraggiarlo, per ricordargli ciò che è essenziale o per rinvigorirlo, per rivestirlo di sapienza. Gesù ci assicura di ottenercelo da Dio Padre. Unica condizione appunto è che noi amiamo lui. “Se mi amate…”. L’amore per lui dev’essere non puro sentimento, ma fatti concreti, obbedienza cioè alle sue parole.
Anche se siamo peccatori, ci assicura San Paolo, lo Spirito ci fa vivere e realizza la novità. La novità è questa, che non abbiamo più paura, che non siamo più attanagliati o imprigionati dalle nostre debolezze e fragilità.
La presenza dello Spirito Santo ci fa sentire sicuri, perché ci rende figli di Dio e quindi suoi per sempre, per sempre capaci di amare e di offrirci. Quando è vivo l’amore in noi, è presente e operante la gioia nel profondo del nostro cuore, una gioia che attira il mondo circostante, cioè i nostri fratelli, in un vortice crescente di donazione di sè. Il mondo cambia davvero, e cambia in positivo. Questa è l’esperienza che già abbiamo vissuto, e questa è la strada per continuare a cambiare la nostra società. Accogliamo perciò lo Spirito Santo aprendo il cuore all’amore di Gesù! La Babele che ci circonda diventerà una famiglia, la divisione che fa soffrire lascerà il posto alla comunione e alla vera pace.
Quando le varie lingue, che segnano la divisione dei popoli, professeranno la medesima fede nel Signore Gesù, allora ci sentiremo e saremo fratelli. Altre strade per costruire la pace non ci sono, o sono già segnate dal fallimento. Altre vie per unire i popoli e il mondo sono solo illusione: quando qualcuno ha voluto usare lo sport per unire popoli diversi non ha fatto altro che dare occasioni nuove perché la divisione si manifesti ed esploda. È Gesù la nostra pace, perché lui solo ci manda il suo Spirito che edifica la Chiesa. In essa Gesù è sempre presente, vivo ed operante. In essa lo possiamo incontrare e da essa siamo aiutati ad obbedirgli, per essere anche noi assistiti e illuminati e guidati dalla luce, dalla forza, dalla consolazione dello Spirito Santo!
Santissima trinità - C
1ª lettura Prv 8,22-31 * dal Salmo 8 * 2ª lettura Rm 5,1-5 * Vangelo Gv 16,12-15
Oggi celebriamo la conoscenza di Dio di cui ci è dato godere. Conoscere Dio non significa soltanto avere qualche idea o sapere qualche cosa di un essere superiore a noi. Questo potrebbe essere vero se Dio fosse una costruzione o un’invenzione della mente umana. Per noi conoscere Dio significa sapere d’essere amati, aver ricevuto i segni del suo amore da lui stesso, che ci stima degni di entrare in comunione con lui, con il suo amore eterno e incomprensibile. Tutto quello poi che sappiamo di Dio lo sappiamo da Gesù di Nazaret, e tutte le immagini di Dio che ci possono avvicinare al suo cuore pure le abbiamo ricevute dal Signore Gesù. Proprio Gesù ci ha avvicinati con un amore “fino alla fine”, tanto che, come egli ci ha detto, in lui abbiamo visto il Padre! Chi pensa a Dio Padre e lo ama, sta facendo quanto Gesù ci ha insegnato e mostrato, e chi avvicina Gesù viene avvolto dall’amore del Padre. Gesù e il Padre sono appunto uno, una cosa sola. Dio è il Padre, che incontriamo grazie a Gesù. Dio è Gesù, che ci rivela il Padre e ce ne dona la pienezza d’amore. Queste grandi e meravigliose verità arrivano a noi e entrano nel nostro cuore per l’azione dello Spirito Santo, lo Spirito del Padre e del Figlio.
Contemplando Dio contempliamo una trinità di amore, tre «persone» talmente unite da essere un unico cuore che ama gli uomini. Infatti Gesù oggi ci dice che il Padre dona tutto al Figlio, e lo Spirito prende dal Figlio le cose del Padre per arricchire noi. Quest’amore che corre dall’uno all’altro è la verità, è la vita vera, la luce che illumina davvero. Quest’amore è quello che ha portato il Figlio sulla croce, per cui noi riusciremo a riceverlo solo dopo aver ricevuto lo Spirito. Senza la sua grazia non possiamo portare il peso della croce, il peso dell’amore pieno e vero. Ci sono necessarie molta attesa, molte esperienze, molta fatica per poter accogliere tutto l’insegnamento di Gesù e apprezzarne l’esempio. Quando non lo comprendiamo non dobbiamo dire che egli non ci capisce o che la sua parola ci inganna, dobbiamo solo dire che noi non siamo ancora capaci di portare il peso della sua rivelazione.
L’apostolo, che aveva ricevuto lo Spirito del Signore, può dire persino di vantarsi “anche nelle tribolazioni”, dalle quali riceveva pazienza e speranza. E proprio nelle tribolazioni sperimentava la presenza dell’amore di Dio nella propria vita, una presenza sempre crescente.
Conoscere Dio equivale a conoscere l’amore, a viverlo, a diffonderlo, a soffrire pur di farlo giungere ai fratelli, a quei fratelli che sono solo in grado di farsi sopportare.
L’amore di Dio, arrivando in noi, ci fa sapienti di quella sapienza che ci pone in armonia con tutto il creato, con tutte le realtà esistenti, e soprattutto con tutti gli uomini. Dappertutto infatti si nasconde l’amore del Padre e dappertutto vediamo immagini dell’amore divenuto creatura umana nel Figlio. Il libro dei Proverbi usa un’espressione ardita, paragonando l’azione della sapienza di Dio sul creato ad un gioco, il gioco con cui il Padre si divertiva e si diverte dando forme sempre nuove alle sue creature per rallegrare il cuore degli uomini. In ogni cosa essi possono così trovare il segno dell’amore di Dio per loro. Essi sono i suoi figli, i suoi bambini, che nel mondo devono giocare con tutte le creature per imparare a crescere. Dappertutto è presente e nascosta la sapienza dell’amore: mai possiamo quindi dire di non essere amati, e mai possiamo pensare di non essere capaci di amare.
Guardando l’amore del Padre verso il Figlio e quello dello Spirito Santo che ci avvicina a Gesù e ci immerge nel cuore del Padre, diveniamo capaci di trasformare il nostro modo di vivere tra di noi. La vita della comunità dei credenti nella Ss.ma Trinità è una vita nuova, dove la serenità è di casa e dove la gioia trova spazio spesso, anche mentre le sofferenze umane e quelle provenienti dal peccato imperversano. Se dimentichiamo di contemplare la Trinità delle persone divine, se non osserviamo il loro reciproco amore, non riusciamo più a vivere da fratelli e da sorelle, non riusciamo a perdonarci e a sopportarci, non riusciamo a pensare ad essere noi la gioia degli uomini. Continuiamo perciò a ripetere in maniera sempre più consapevole: Gloria al Padre, al Figlio, allo Spirito Santo! Rendiamo consapevole questa lode facendo diventare visibile nelle nostre azioni l’amore generoso del Padre, quello obbediente del Figlio e quello dello Spirito che realizza armonia e unità tra gli uomini! Tutta l’umanità si trasformerà!
Ss. Corpo e Sangue di Cristo - C
1ª lettura Gn 14,18-20 * dal Salmo 109 * 2ª lettura 1Cor 11,23-26 * Vangelo Lc 9,11-17
Ogni domenica, anzi ogni giorno, la Chiesa si riunisce per mangiare il Corpo di Cristo. Esso è il suo pane, il “pane quotidiano” che tutti i credenti chiedono al Padre con insistenza ogni volta che pregano ubbidendo a Gesù. Il Corpo e il Sangue di Cristo sono il nutrimento e la bevanda che tengono viva la Chiesa, che le comunicano la forza necessaria perché possa svolgere la sua missione nel mondo. La missione della Chiesa esige grande energia, sia per vincere il male che la attacca da tutte le parti e vuole ostacolarne la fede, sia per donare a tutti gli uomini, oppressi e sofferenti per il peccato proprio e altrui, il dono dell’amore del Padre. L’amore del Padre è perdono, è guarigione, è attenzione alle sofferenze, è organizzazione di strumenti per raggiungere anche quei sofferenti che non sanno ancora che l’amore di Dio li vuol sollevare. L’amore del Padre che la Chiesa può e deve offrire è fatto di piccoli gesti quotidiani compiuti da singole persone, ma è fatto anche di attenzioni che si immergono nelle famiglie e nella politica delle piccole aziende o società e in quella delle regioni e delle nazioni. Non c’è luogo e non c’è persona che non possa essere raggiunta dalla mano benedicente di Dio: ogni cristiano quindi, ovunque viva e operi, può e deve esserne strumento. Ogni cristiano ha bisogno di energia interiore, spirituale e intellettuale per dare spazio nel suo ambiente alla gloria di Dio. Da dove può venire al credente questa energia? Se egli non si nutre regolarmente alla fonte dello Spirito Santo diverrà a poco a poco sale senza sapore, diverrà cristiano insignificante, nemmeno più degno di questo nome. Fonte di Spirito Santo è quel pane e quel vino che sono il Corpo e il Sangue di Cristo! Su quel pane e su quel vino la Chiesa tutta invoca la potenza dello Spirito, perché, trasformandosi in Corpo e Sangue del Signore portino lo stesso Spirito nei singoli cuori e in tutte le relazioni dei credenti.
I pastori della Chiesa hanno insistito e insistono tuttora a dirci che ogni credente deve fare il possibile per partecipare alla celebrazione eucaristica domenicale con fedeltà settimanale. Essi non lo dicono per capriccio, per imporre un obbligo insopportabile ai credenti, ma semplicemente perché sanno che a chi non è nutrito del Pane divino verrà a mancare la forza dello Spirito. Egli diverrà membro inoperoso nel Corpo di Cristo, nella Chiesa, membro malato e, a lungo andare, come morto, come non ci fosse. L’assenza alla celebrazione domenicale la chiamiamo perciò peccato mortale: è un’omissione che fa morire l’energia interiore necessaria al cristiano per essere attivo nella missione della Chiesa. E nella Chiesa diviene piuttosto un peso che l’affatica e la blocca nel suo agire per la salvezza del mondo. Dov’è possibile i pastori della Chiesa offrono l’Eucaristia anche nei giorni feriali, perché il “pane quotidiano” possa nutrire quotidianamente i fedeli!
Il vangelo di oggi racconta un episodio significativo per molti aspetti. Gesù non ha atteso un giorno particolare per dare da mangiare a coloro che lo seguivano per ascoltarlo. Quel giorno avevano bisogno di forza per continuare a stare con lui, e quel giorno li ha fatti sedere in maniera ordinata. E mentre tutti sedevano, ubbidienti, ha consegnato ai discepoli i pezzi di pane che uscivano dalle sue mani dopo che egli aveva ringraziato il Padre. Quel gesto era segno e profezia di quanto poi ha fatto durante la Cena pasquale. Dando il pane ai cinquemila ha lasciato capire che egli ha il cibo per tutti gli uomini che lo ascoltano, e nell’ultima Cena ha completato il suo amore donando come pane se stesso, la propria vita immolata e offerta liberamente al Padre. Egli compiva così la benedizione profetica con cui era stato benedetto Abramo dal re di Salem, Melchìsedek.
Oggi noi tutti offriamo a Dio pane e vino, e lo offriamo con gioia mangiandolo: offriamo cioè quella vita che il pane e il vino generano e sostengono in noi, quella vita che ama, che dona gesti di amore gioioso a chi ci incontra sulle strade del mondo. Uscendo sulle strade del paese attorno al Corpo di Cristo vogliamo dire a noi stessi anzitutto, e poi idealmente a tutti, qual’è la fonte di ogni nostro gesto di amore e di perdono con cui risaniamo e rallegriamo la nostra società, qual è il nutrimento che fa della Chiesa il luogo di accoglienza per tutti coloro che sono affaticati e oppressi dal peccato e dalle sue conseguenze. Canteremo il nostro grazie e la nostra lode a Gesù per quel Pane che ci unisce in un sol corpo, per santificare, attraverso di noi, tutto il mondo!
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Nihil obstat: P. Modesto Sartori, capp., cens. Eccl., Arco, 03 settembre 2015
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